"ROSSO MELOGRANO" DI GIULIA POLI DISANTO

"ROSSO MELOGRANO" DI GIULIA POLI DISANTO

"Rosso Melograno", il nuovo romanzo di Giulia Poli Disanto, è stato presentato a Mola di Bari, il 6 giugno 2018 presso Casina Morgese, nell'ambito della rassegna "Baricentro di cultura in collina" - XVI edizione - promossa dall'Associazione Onlus "Le Antiche Ville" e dall'Ecomuseo del Poggio di Mola di Bari, con InfinitART.

Waldemaro Morgese, presentatore del romanzo nell'occasione, ha scritto su di esso una breve recensione che si riporta di seguito.

Giulia Poli Disanto con Rosso Melograno (Il Grillo Editore, 2018, pagg. 216) dedica il suo romanzo a tutti coloro che “sono alla ricerca di una Patria e che decidono di cambiare la propria vita”. Manifesta questo suo sentiment, ricco di patos e volitivo, attraverso la storia di un profugo curdo, il piccolo (bicuk) Serush, appartenente ad una famiglia di “audaci” per carattere: “perché sognava la conquista di un Paese unico, dove mettere radici”, una regione “che potesse essere riconosciuta anche come Stato e che fosse in grado di eliminare le tante disuguaglianze sociali, come pure i matrimoni delle fanciulle, o lo scambio di donne tra famiglie”. Ma questo sfondo geopolitico (un popolo senza patria di oltre 20 milioni di persone divisi fra 5 Paesi), pur presente nel romanzo, resta – appunto – sullo sfondo, mentre emerge prepotente e a suo modo meravigliosa la figura dell’audace ragazzo – novello Ulisse - che trasmigra fra Kurdistan, Iraq, Siria, Italia e di nuovo Iraq in un susseguirsi di vicende avventurose, in alcuni casi drammatiche, sempre avvincenti.

E’ curioso che il romanzo di Giulia Poli Disanto sia stato pubblicato nello stesso anno in cui un ormai prolifico nume tutelare della letteratura curda della diaspora, Bachtryal Alì, ha pubblicato in traduzione italiana (edizioni Chiarelettere) e presentato al milanese Tempo di libri il suo L’ultimo melograno, già scritto in dialetto curdo “sorani” nel 2002. Nel romanzo di Bachtryal Alì il protagonista si chiama Muzafari Sublidan ed è anch’egli un audace figlio del Kurdistan.

La struttura del romanzo di Giulia è accattivante (39 brevi capitoli) e consente di superare agevolmente l’impegno che comporta la lettura di un’opera abbastanza ponderosa, densa perché ricca di riferimenti e di vicende. A questo proposito, l’Autrice ha di certo superato brillantemente una prova per così dire “salgariana”: perché il suo districarsi fra i luoghi del Kurdistan, dell’Iraq e della Siria (da lei non conosciuti direttamente, come per sua stessa ammissione), compresi gli usi e costumi e la gastronomia, è sul serio ammirevole! Questo topos è tipico di quanti anelano a percorrere plaghe nuove, della geografia ma anche del pensiero e la tecnica “salgariana” rappresenta una chiave di soluzione sovente praticata: in questo caso, ripeto, in modo perfettamente riuscito.

Il melograno è per i curdi (ma in generale per molti popoli) simbolo di fecondità e libertà, solidarietà e amore ardente: sovrasta tutto il romanzo, i cui squarci caratterizzati da simbolismi sono più di uno, insieme agli echi letterari – consapevoli o meno – che potremmo far risalire all’omeriana Odissea, a Dostojevski, a Garcia Marquez e alle Mille e una notte (citato esplicitamente perché acquistato da Layla, un personaggio del romanzo, in un suk del suo villaggio).

Il fulcro tematico del romanzo, che ne fa un’opera di spessore, è racchiuso in una dicotomia lacerante: lotta armata o cultura e pace? Questo dilemma è rappresentato solarmente dall’Autrice, messo in bocca a Goran il poeta, apparentemente lo zio di Serush, di cui il nostro protagonista segue le orme: “Sai, Serush, avevo vent’anni e tanta voglia di cambiare il mondo, quando nel 1978 incominciarono i primi dissidi con l’Itar. Allora, feci la scelta più importante della mia vita. Scelsi di continuare gli studi invece di entrare nella lotta armata o di portare al pascolo le bestie come faceva mio fratello Rêzan. Ero convinto, e lo sono ancora, che solo attraverso la cultura e la pace i popoli possono crescere e imparare ad amarsi”. E’ questo passo (pag. 93), il cui nocciolo tematico è ripreso a pag. 171, il nucleo “duro” del romanzo: una opzione neoilluministica forte e chiara. Il che non significa per l’Autrice svalutare la lotta dei curdi, tutt’altro, ma arricchirla di possibilità, inserirla in un più vasto orizzonte.

Rosso Melograno è un nuovo riuscito esempio di quella che è stata definita (da Armando Gnisci) la “letteratura della migrazione”, o “letteratura migrante”, che si suole datare, in Italia, a partire dall’assassinio di Jerry Essan a Villa Literno nell’agosto 1989 (prima di questa data forse l’unico esempio è stato il Pasolini cantore delle borgate romane, popolate di personaggi stranieri, a cui Claudio Giovannesi si è ispirato per il suo film Alì ha gli occhi azzurri del 2012). Letteratura oggi ormai ricca di testimonianze, non solo di autori stranieri che hanno pubblicato prima con l’ausilio di traduttori poi direttamente in lingua italiana, ma anche di autori italiani. Citerei Alì Elisani, Khaled Hosseini, Mohsin Hamid, Alberto Pellai, Maria Bellu, Igiaba Scego, Domenico Quirico, Fabio Geda, Pap Khouma, Ruggero Pegna, Irena Bregna, Giuseppe Catozzella e altri: un genere attraverso cui si produce un interessante scontro/incontro fra culture e che oggi sembra particolarmente attuale.


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