NELL'EPOCA DEI POPULISMI LE RIFORME ISTITUZIONALI SONO LA NECESSITA'

NELL'EPOCA DEI POPULISMI LE RIFORME ISTITUZIONALI SONO LA NECESSITA'

LA CRISI E I POPULISMI LEGAME A DOPPIO FILO/MACROREGIONI COSÌ RIPARTE IL NOSTRO PAESE.

Il fenomeno dopo gli USA ha investito l’Europa, ma il vero nodo è quello delle riforme istituzionali. Per realizzare una forma di stato federale bisogna superare schemi illiberali e populisti.

[Rubrica Multiverso di Waldemaro Morgese, su EPolis Bari inweek del 20 e 28 luglio 2018.]

La rivista «Foreign Affairs», magazine statunitense di geopolitica alquanto autorevole, si è interessata alla sorte dei Paesi di democrazia “liberale” a fronte di quelli “autocratici” sostenendo che il PIL di questi ultimi potrebbe presto segnare il sorpasso, mentre vari opinionisti e studiosi cominciano a elaborare analisi che riconcettualizzano e attualizzano l’epocale confronto che oppose nel Novecento il “mondo libero” al “blocco comunista”: un confronto che assunse – si ricorderà – aspetti anche di vero e proprio agonismo giocato nello spazio (lo sputnik con Jurj Gagarin, lo sbarco sulla Luna con Neil Armstrong…).

Oggi la “guerra fredda” assume altri contorni, profondamente mutati e, dal lato del campo che fronteggia le democrazie liberali, ha alcune teste di ponte molto significative: Cina, Russia, India ad esempio. Non c’entra più il comunismo ma l’illiberalismo delle forme di governo resta immutato. Yascha Mounk, politologo tedesco che insegna ad Harvard, ha individuato la causa scatenante il successo populista: finché negli USA si è avuto un costante aumento degli standard di vita, la democrazia ha retto, ma con il diffondersi della crisi ecco che nelle presidenziali ha prevalso Donald Trump. Nei paesi dell’UE la situazione è analoga e il successo delle forze populiste, chiaramente illiberali, risiede in queste identiche dinamiche (“Popolo vs democrazia”, Feltrinelli 2018). Consiglierei al lettore di leggere “Il muro invisibile”, lo sconvolgente réportage di Tonia Mastrobuoni apparso su «la Repubblica» del 15 giugno scorso sulla situazione della Germania e sul successo delle forze populiste in tutta la ex RDT: può insegnare qualcosa anche all’Italia, specie a noi del Sud. Così come è utilissimo il servizio “Populisti di tutto il mondo (dis)unitevi”, apparso sul magazine del Corsera «La Lettura», che nel numero dell’8 luglio radiografa paesi a incipiente o stabilizzato populismo come il Messico, gli USA, La Cina, le Filippine, la Svezia, il gruppo Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), la Turchia, l’Olanda. In questa situazione non sorprende che un brillante storico liberal come Mark Lilla, docente nella Columbia University di N.Y., scriva di capire perché i cittadini europei, stretti fra i diktat della lontana Bruxelles e l’immigrazione di massa, abbiano l’impressione di non poter controllare il proprio destino collettivo e siano pronti “a considerare il ricorso a mezzi non democratici” (“L’identità non è di sinistra”, Marsilio 2018).

E’ questo il panorama preoccupante in cui si iscrive la probabile incipiente apertura in Italia di una nuova fase di riforme istituzionali, dopo il fallimento di quella radicale tentata dal governo Renzi, annunciata dal ministro in carica per la “democrazia diretta” con l’idea di ridurre i parlamentari a 600 in tutto: ma avremo modo di tornare sull’argomento nel prossimo Multiverso.

In un articolo di un paio di mesi fa (su “l’Espresso” del 6 maggio 2018), intitolato “Nani sulle macerie”, Massimo Cacciari ha ridicolizzato le “nuove” Repubbliche che ci si inventa ad ogni tornata elettorale ed ha auspicato che, quando si andrà a nuove elezioni, esse diano luogo ad un Parlamento «in cui ci si impegni a realizzare un nuovo ordine repubblicano, attraverso un confronto che almeno assomigli a quello che ebbe luogo nel ‘46».

E’ il tema delle riforme istituzionali, più volte tentate. Da ultimo quelle del governo Renzi sono fallite sull’onda di un referendum in cui i cittadini italiani hanno segnato “no” per disarcionare l’ex presidente del Consiglio non tanto le riforme.

Oggi questo tema riappare in un contesto geopolitico ed economico del tutto nuovo. Mettiamola così. Prima della nascita del governo Lega-M5S una quasi-spia come il putiniano Guryev lanciava i suoi ami con la copertura del sentimento nicolaiano di migliaia di ortodossi russi (teatro delle operazioni: Bari, patria di san Nicola) ma senza l’ammiccamento governativo italiano, esattamente come accadeva anche per i gruppi di preghiera animati dalla quasi-spia russa Maria Butina, affascinante ventinovenne cui invece era stato assegnato il teatro USA. Ora però, con governi in carica chiaramente filo-Putin a Roma come a Washington, urgono innovazioni radicali ben precise.

Nel nostro Paese stanno emergendo due proposte. La prima è del governo: il ministro M5S della “democrazia diretta” intenderebbe facilitare l’istituto referendario (abolendo il quorum per quello abrogativo) nonché le leggi di iniziativa popolare (con l’obbligo di loro discussione e votazione da parte delle Camere) e ridurre il numero di parlamentari (dagli attuali 945 effettivi a 600). La seconda vede protagonista il costituzionalista Giovanni Guzzetta supportato dall’associazione “Nuova Repubblica”. Consiste nell’elezione diretta del presidente della Repubblica attraverso un referendum di indirizzo e una successiva Assemblea costituente che modifichi la costituzione vigente: il tutto con lo strumento di una proposta di legge popolare depositata proprio in questi giorni presso la Cassazione, in attesa di raggiungere le firme necessarie.

Chi scrive è propenso da sempre alla revisione della Costituzione, fin da quando Pietro Ingrao propugnò il monocameralismo: ciò lo scrivo a scanso di equivoci (anzi non comprendo a cosa serva ridurre i parlamentari lasciando intatte le due Camere!). Ma ritengo necessario, in un contesto attuale di innamoramento per stati o governanti populisti e illiberali, evitare il più possibile che le modifiche finiscano per profilare una nuova Repubblica sì, ma stretta fra volontà diretta dei cittadini alla base e comando di uomini soli al vertice. Questo inconveniente dunque dovrebbe essere bilanciato dalla nascita, tra base e vertice, di un forte tessuto di governi decentrati, vale a dire da un numero ridotto di macroregioni che profilino finalmente una moderna forma di stato federale. 


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