IL DISCOBOLO: recensioni a stampa

IL DISCOBOLO: recensioni a stampa

Si riportano, di seguito, le recensioni di: Daniele Maria Pegorari, Antonio Giampietro, Mary Sellani.

IL DISCOBOLO

Dopo Città buie (Il Grillo editore, Gravina, aprile 2015), tre racconti brevi che hanno come scenario l’amara condizione del Sud letta attraverso la vita dei tre giovani protagonisti: l’appassionata bibliotecaria Nora, il saggio ufficiale di Marina Achille, il trasgressivo viaggiatore Moby. Dopo Multitask (Edizioni dal Sud, Bari, settembre 2014), “vita scritta da lui medesimo” con sottotitolo “Una vita complicata fra liberalismo e laburismo”, che abbraccia quasi un cinquantennio, con prologo di Ennio Corvaglia ed epilogo di Nicola Saponaro. Dopo il “trittico degli amori” affidati ai tipi delle Edizioni dal Sud: L’amore per la cultura (giugno 2011), L’amore per la politica(settembre 2012), L’amore per l’economia (dicembre 2013), sillogi di editoriali scritti per il quotidiano di strada EPolis Bari. Ora Waldemaro Morgese si cimenta con un romanzo che è un delicato memoir ma nel contempo anche il racconto, spesso brioso, di una intera generazione.

 Ospitiamo qui la “bandella” scritta per il libro da Daniele Maria Pegorari, professore di letteratura italiana contemporanea nell’Università degli studi di Bari, ringraziando l’Autore e l’Editore FaLvision:

 Un giovane pugliese alle prese con la sua iniziazione intellettuale nella Roma ribollente sulla soglia del Sessantotto. Le goliardate (anche erotiche) di una gioventù che sembra non dover mai finire. Un tempo di rivolte in cui a dividere l’estrema destra dall’estrema sinistra – anche fino al sangue, se necessario – era davvero un tiro di dadi. Poi il ritorno del giovane nella grande città del Sud che appare sempre troppo piccola se hai passato qualche anno nell’Urbe.

E quella giovinezza che, invece, è scivolata via e, al suo posto, ha lasciato un ‘eroe’ dell’impegno quotidiano nella politica, nel lavoro e nel sogno di un’economia diversa. Ma per essere eroe davvero non basta il rigore metodico, il distacco scettico, la collaborazione leale: devi avere una fede cieca, un coraggio da leone e un carattere intrepido, mentre Marco appare invincibilmente attratto da un destino di ‘antieroe’, schivo e diffidente com’è. Di lui non si può certo dire che non si trovasse al posto giusto nel momento giusto, solo che il ruolo che si è scelto è sempre stato quello di osservatore della grande storia che gli scorreva davanti, piuttosto che di protagonista. Attratto dal teatro d’avanguardia e dalla sua Fiat 500 decapottabile, pronta a trasformarsi in palco mobile per i comizi operaisti, Marco si trasformerà in un pragmatico uomo d’apparato. In fondo è sempre stato così, teso fra due opposte energie, quella dello slancio e quella dell’inerzia, come di chi carichi il colpo finale e poi si blocchi indeciso, come il ‘discobolo’ che ammirava nei libri di arte classica al liceo, ritratto nella fissità che precede l’ultimo lancio del disco.

Naturalmente ricchissima di dettagli autobiografici – dagli studi letterari alla carriera nel partito comunista, dalle cronache teatrali alla fondazione di biblioteche e musei – questa gustosissima narrazione di Waldemaro Morgese è, però, ancor più un romanzo generazionale: accanto ai suoi già numerosi libri di economia e di pubblicistica, quest’opera è quella che meglio racconta la sbornia ideale (e non solo ideologica) che esaltò e segnò per sempre i giovani pugliesi degli anni Sessanta e Settanta, e che pure dovette passare al momento del loro inserimento nella prassi del lavoro e della responsabilità istituzionale.

Pasolini, proprio per definire il tracollo del sogno (o era un incubo?) del Sessantotto, contrapponeva il “trasumanar” dell’ideale all’ “organizzar” dell’azione, non più compensati da quella sana ‘filosofia della praxis’ che Gramsci aveva predicato e di cui rimanevano ormai solo pagine ingiallite. Morgese racconta questo trapasso dall’interno, con un registro in cui all’invenzione si mescola il saggio (non breve è il catalogo di letture che se ne potrebbe ricavare!) e al palmares dei bersagli colpiti si accompagna una sorniona richiesta di indulgenza per quel disco non lanciato.

                        [Recensione di Daniele Maria Pegorari apparsa su "Città Nostra" del febbraio 2016, p. 13]. 

 

 

IL DISCOBOLO

«Con la bellezza e la comprensione del passato ci si può armare di maggiore coraggio per traversare i mari perigliosi del cambiamento. La ricerca dell’identità ci aiuta perché si è sostenuti da una forza collettiva comune». Sono parole che pensiamo possano ben riassumere ciò che questo nuovo libro di Waldemaro Morgese ci offre. Il discobolo, immagine da un’antichità mitica, proteso in un gesto infinitamente incompiuto simbolo di una «complicata impotenza», è il punto di partenza e di arrivo del romanzo. Esso può essere interpretato, come suggerisce lo stesso autore nell’epilogo che significativamente è posto in apertura e non in chiusura del libro, in due modi: da un lato un riscatto prossimo a venire, ma che in realtà non arriva mai, e dall’altro la convinzione che forse ciò che non si è fatto

è meglio che non sia stato fatto. Il protagonista di questo romanzo, Marco, è un figlio del Sud il quale, provata la delusione cocente di una terra che non lo comprende (nello specifico un esame universitario fallito), decide di andare a studiare fuori, a Roma, dove prima di tutto ha l’obiettivo di laurearsi. Il nome della sua regione non compare mai, ma vi sono riferimenti che ci permettono di identificarla con certezza (come la scelta dello scrittore suo primo argomento di tesi, Luigi Chiarelli di Trani) e, addirittura, di individuare il suo paese natale, Mola di Bari, attraverso il riferimento a Enzo Del Re, incontrato dal protagonista un giorno in un teatro romano. Marco ha intenzione di finire l’università e rientrare nel suo paese per cambiare il corso della storia del suo popolo, ed è questo che lo spinge a frequentare, quasi per caso, ambienti politici e personaggi che gli appaiono sui generis, come quelli di “Servire il popolo”, troppo estremi e vuoti però per lui. La sua vera presa di coscienza politica avviene durante le operazioni di soccorso per il terremoto

del Belice a cui partecipa come volontario. Egli, che fino a quel momento si era fatto trascinare dagli eventi più che da un attivismo consapevole, si rende allora conto di essere di sinistra e, tornato a Roma, comincia a partecipare alle manifestazioni e contestazioni del movimento studentesco. Quello di Marco è un ercorso di crescita e di maturazione vibrante, come sono tutte le vite intense e passionali, che passa anche da un «viaggio della memoria alla ricerca dei luoghi concreti della sua fanciullezza», da gesti semplici ma significativi, come il radersi la barba e ritornare ad avere la

faccia pulita, e, infine, dal gettare via l’eskimo ormai impresentabile per tornare «normale». In questo percorso formativo rientra anche un viaggio che il protagonista compie in Unione Sovietica, luogo che però lo delude: «La patria del socialismo non aveva fatto a lui e ai suoi compagni una buona impressione». Tornato nella sua terra, seppur conservando una determinazione estrema e risoluta, Marco rientra in schemi di vita più ordinari e prosegue in una triplice direzione: da un lato, per qualche tempo, la scuola e poi un lavoro da funzionario nell’amministrazione pubblica, da un altro, l’insegnamento annuale all’università, e, da un altro ancora, il partito. Il discobolo è un racconto

che vuole restituire ai lettori, soprattutto giovani, un esempio di normalità straordinaria: si tratta, in fondo, della storia di tanti dei nostri padri, vissuti in un mondo a tratti sull’orlo di una guerra definitiva, un fortissimo scontro tra ideologie, ma in cui erano ancora presenti certezze capaci di far credere che non esistessero obiettivi irrealizzabili, ma solo mondi possibili. E anche oggi, che il tempo terribile della precarietà intacca le vite di ogni figlio di queste generazioni, nonostante il riconoscimento di un certo fallimento, questi uomini ci vogliono dire che è il recupero della memoria a rappresentare il baluardo contro l’annientamento di utopie che non restano tali, ma fecondano «nuove realtà». Dunque lo scorrere del tempo, il passato, è «un fenomeno dolce, conciliatore, una realtà immanente, per nulla perduta e inutile, anzi inserita nel presente e ammaestratrice del futuro». Così anche se l’impegno di Marco nel partito regredisce ed egli si rinchiude in una operosità privata, un’ultima forma di resistenza e di lotta resta quella sua buona abitudine di leggere e studiare, «confrontare il fare con il pensare». E non è un caso che il libro si chiuda con l’immagine idillica di un Marco anziano immerso nella sua biblioteca personale, i cui scaffali, di legno pregiato, sono stati incavati nelle pareti della sua casa di campagna da un amico falegname ottantenne. Ci troviamo di fronte a un romanzo che, seppure conservi il sapore di una narrazione autobiografica – impossibile non scorgere lo stesso autore nel profilo di Marco –, non può essere ridotto a una mera rappresentazione personale, sebbene raccontata con incantevole distacco. Ci pare si tratti, piuttosto, della riproposizione di una testimonianza, del tentativo di recupero di una forza collettiva che, se riscopre la propria pura autenticità, può ancora portare gli uomini di questo nostro Sud a essere i protagonisti di un mondo diverso.

[Recensione di Antonio Giampietro apparsa su “incroci” n. 34 del luglio-dicembre 2016, pp. 143-145].

 

Un libro di memoria ma senza nostalgia

IL DISCOBOLO, IL NUOVO ROMANZO AUTOBIOGRAFICO DI WALDEMARO MORGESE

Un libro di memoria ma senza nostalgia questo nuovo romanzo autobiografico di Waldemaro Morgese, Il discobolo (Falvision editore, 77 pagine, E10,00), in cui egli rievoca la sua storia narrata in terza persona sotto il nome di Marco, un percorso di vita che va dal periodo giovanile fino alla maturità. Un arco esistenziale che appartiene verosimilmente a una generazione, quella nata alla fine della seconda guerra mondiale, in un’Italia tutta da ricostruire, e che rappresentava la frontiera per un riscatto morale e materiale, in particolare per il Sud da cui lui proveniva. Un libro come guida personale e sentimentale che è servito all’autore per fare un bilancio del suo impegno generoso nella politica, nel sociale, nel lavoro e nel sogno di un’economia né capitalistica né collettivistica. Da ragazzo pugliese partito dalla sua Molfetta [in realtà Mola di Bari, n.d.r.] per iscriversi a Roma alla facoltà di lettere dell’università ricorda la sua iniziazione intellettuale in quella città ribollente alle soglie del Sessantotto, mentre la capitale gli offriva un palcoscenico privilegiato di possibilità d’incontri importanti, di cosmopolitismo, di attività artistiche, e persino di avventure inedite con personaggi stravaganti, i quali però non riuscirono a distoglierlo dal suo senso del dovere e dello studio.

In quel magma giovanile incandescente, ove tutti i confini sembravano scompaginati, in cui destra e sinistra erano diventate contigue, scoppiò l’evento che più lo segnò, e attraverso il quale si chiarì le idee, indirizzandolo decisamente verso la sinistra: il terremoto del Belice in Sicilia. Senza un attimo di esitazione si arruolò nei gruppi di volontariato che si formarono in tutto il Paese per andare in soccorso delle zone terremotate, dove vide con i propri occhi lo sfasciume del Mezzogiorno d’Italia ed apprese per la prima volta dell’esistenza della mafia. Tornato a Roma entrò nel movimento studentesco che esaltò i giovani pugliesi degli anni Sessanta e Settanta, per poi passare al momento del loro inserimento nel mondo del lavoro e della responsabilità istituzionale. E racconta episodi significativi che descrivono, tra l’altro, i vizi e le viertù di un’Italia pretenziosa ma in progressivo involgarimento.

Conseguita la laurea, Marco, abbandona l’eschimo e torna nella sua terra non più da “rivoluzionario” ma da antieroe, schivo e diffidente com’è, per dedicarsi alla “filosofia della praxis”. Gli idoli erano ormai caduti e si ritrovava a leggere avidamente le pagine di Albert Camus sull’uomo in rivolta e a convenire con lui quando così scriveva: “Certo, la rivoluzione bisognava salvarla come suprema possibilità conferita all’essere umano per dare un senso vero alla vita, ma si deve trattare di un esempio di equilibrio, di una forma di creatività esaltante, che libera le menti e i cuori, ed anche le condizioni materiali, non di superfetazioni intrise di sangue, ghigliottinamenti, uccisioni, torture e imprigionamenti concentrazionari o di milioni di morti in nome di guerre assurde”.

Marco interpretava in questo modo lo scrittore visionario premio Nobel e concludeva che per vivere degnamente non bisogna respingere nessuna sfida della vita, ma ingaggiarle tutte, qualunque sia l’esito congetturabile. In ogni caso, dopo aver vissuto e costruito tanto, ma anche fallito molti progetti, l’ultima sua consolazione fu vivere nell’avita casa di campagna immerso in una biblioteca che aveva voluto organizzare e condividere con chiunque fosse interessato ai suoi percorsi intellettuali: unico fil rouge che lo collegava al mondo esterno. Nel segno della saggezza di Marco Tullio Cicerone che intravide l’immensa virtuosità del giardino unito alla biblioteca. E’ a questo punto che si svela la metafora del discobolo che dà il titolo al libro. Perché in fondo Waldemaro-Marco è sempre stato così, teso fra due opposte energie, quella dello slancio e quella dell’inerzia, come di chi carichi il colpo finale e poi si blocchi indeciso, come il discobolo appunto, che lui ammirava nei libri di arte classica al liceo, ritratto nella fissità che precede l’ultimo lancio del disco. Un bilancio dunque tutto sommato soddisfacente.

[Recensione di Mary Sellani apparsa su “Quotidiano di Bari” di giovedì 11 febbraio 2016, pag. 9].


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