CITTA' BUIE: recensioni

CITTA' BUIE: recensioni

Si riportano, nell'ordine, le recensioni di: Piero Fabris, Nicola Fanizza, Giuliana Kreis, Antonio Giampietro, Carlotta Panaro, Mary Sellani, Andrea G. Laterza, Teresa Gallone. 

Un esempio di come i libri non servono a fare solo citazioni 

 TRE PERSONAGGI PER ANDARE OLTRE IL BUIO

 "Città Buie" di Waldemaro Morgese (Il Grillo Editore; pagg.72; € 10,00) è la possibilità di compiere un periplo illuminante nelle nostre città.

Non si tratta del semplice viaggio negli aspetti loschi e degradati delle periferie dell'anima e di certi contesti urbani che, con schiettezza l'autore descrive, offrendosi come un disturbo alla "DISSONANZA COGNITIVA" di chi appunto non vuol vedere, quanto una crociera esplorativa, una ricerca di soluzioni, magari semplici suggerimenti per costruire; una spinta capace a mostrare la rotta per educare, ridare splendore a una umanità votata al declino.

I tre personaggi descritti nel testo compiono realmente e metaforicamente un viaggio in se stessi e nelle realtà sempre più ampie; sono il simbolo di una gioventù alla ricerca di soluzioni e vie di riscatto per realizzarsi, per essere protagonisti della propria esistenza e contribuire in maniera costruttiva a realizzare aree urbane a misura di Uomo.

Waldemaro Morgese ha realizzato, con quest'opera, un inno alla Cultura come mezzo per riconoscere il bello, il buono e il giusto. Nora, Moby e Achille (i protagonisti del libro) grazie a uno studio serio scoprono e usano i libri come bussola, mappa per uscire dall'ignoranza e guardare lontano, al futuro. Essi compiono in forme diverse percorsi "senza confini" che li porteranno a rispecchiarsi, a meditare, a costatare amaramente cosa siano certi "Quartieracci", ma nessuno di essi penserà di arrendersi, nessuno di loro è un vinto. In essi vi è la consapevolezza che le biblioteche sono telescopi e microscopi del sapere, ovvero una risorsa per alimentare profondamente la memoria collettiva e guardare al domani.

 [recensione di Piero Fabris apparsa su "Città Nostra" del giugno 2015, pag. 25].

 

Città buie/L'ultimo romanzo di Waldemaro Morgese: la cultura ci riscatta

SE LA NOSTRA BUSSOLA E' UN LIBRO

"Città Buie" di Waldemaro Morgese (Il Grillo Editore, pagg.72, 10 euro) è la possibilità di compiere un periplo illuminante nelle nostre città.

Non si tratta del semplice viaggio negli aspetti loschi e degradati delle periferie dell'anima e di certi contesti urbani che, con schiettezza l'autore descrive, offrendosi come un disturbo alla "DISSONANZA COGNITIVA" di chi appunto non vuol vedere, quanto una crociera esplorativa, una ricerca di soluzioni, magari semplici suggerimenti per costruire; una spinta capace a mostrare la rotta per educare, ridare splendore a una umanità votata al declino.

I tre personaggi descritti nel testo compiono realmente e metaforicamente un viaggio in se stessi e nelle realtà sempre più ampie; sono il simbolo di una gioventù alla ricerca di soluzioni e vie di riscatto per realizzarsi, per essere protagonisti della propria esistenza e contribuire in maniera costruttiva a realizzare aree urbane a misura di Uomo.

Waldemaro Morgese ha realizzato, con quest'opera, un inno alla Cultura come mezzo per riconoscere il bello, il buono e il giusto. Nora, Moby e Achille (i protagonisti del libro) grazie a uno studio serio scoprono e usano i libri come bussola, mappa per uscire dall'ignoranza e guardare lontano, al futuro. Essi compiono in forme diverse percorsi "senza confini" che li porteranno a rispecchiarsi, a meditare, a costatare amaramente cosa siano certi "Quartieracci", ma nessuno di essi penserà di arrendersi, nessuno di loro è un vinto. In essi vi è la consapevolezza che le biblioteche sono telescopi e microscopi del sapere, ovvero una risorsa per alimentare profondamente la memoria collettiva e guardare al domani.

[recensione di Piero Fabris apparsa su "EPolis Bari" di mercoledì 13 maggio 2015, pag. 20].

 

 

CITTA' BUIE

Nel mese di luglio, sono tornato nel mio Paese, nella casa dove sono nato tanti anni fa. Da Milano ho portato qualche libro, il portatile e la voglia di recuperare l’assenza di tutti questi anni che mi separano dall’infanzia e dalla prima giovinezza. Ho trovato sempre meno amici. Molti sono andati via. Sono andati via per vivere altrove oppure sono andati nel cimitero per riposare per sempre.

Ho incontrato anche alcuni amici che avvertono la morte dietro al collo. I decessi in questi ultimi anni sono aumentati per l’insorgenza di neoplasie che hanno investito per lo più l’apparato digerente. Da qui l’accusa rivolta ai proprietari della discarica che è presente nel territorio di un paese vicino. Questi ultimi sono stati rinviati a giudizio, poiché – questo dice l’accusa – avrebbero inquinato le falde acquifere che vengono utilizzate per irrigare la frutta e la verdura.

Tutto ciò ha penalizzato i contadini che possiedono i poderi nelle zone contigue alla discarica. I consumatori, quando si recano al mercato, sono preoccupati per la loro salute: comprano, infatti, solo la frutta e gli ortaggi che provengono da fondi ritenuti «sicuri», ossia da colture ubicate in aree agricole distanti dalla discarica.

Nel paese che mi ha visto nascere ho parlato solo con i vecchi. I quali mi hanno detto che anch’essi non conoscono i giovani e che parlano solo fra loro. Penso che i giovani, come sempre, più che ai loro padri assomigliano al loro tempo. Un tempo ansiogeno e volgaruccio, un tempo che – come nel resto della penisola italiana – è di attesa.

Nondimeno ciò che mi ha maggiormente colpito è stato il sensibile aumento dei cani che vengono portati a passeggio dai loro proprietari. Quello del cane depresso o del gatto schizzato è diventato, purtroppo, l’argomento principale negli incontri con i parenti e con gli amici di famiglia. Sicché, per affrancarmi da quei noiosi rituali, ho preferito darmi alla lettura.

Nel vivo chiarore delle giornate passate al mare, ho letto l’ultimo libro di Waldemaro Morgese Città buie – Il Grillo Editore, Gravina, 2015, euro 10,00 –, che si articola in tre brevi racconti. Si tratta di un libro di rara bellezza, di un libro in cui l’autore si mette in gioco, di un libro a tratti sofferto, di un libro che ci restituisce con tono lieve e con accenti autobiografici gli opposti di cui il Sud è costituito, di un libro che tutti i meridionali dovrebbero leggere per avere un’immagine corretta di loro stessi.

Morgese invita gli abitanti del Sud a guardarsi allo specchio, li invita ad osservare, nei loro stili di vita e nelle loro fattezze, quei particolari che rischiamo di farli sentire un po’ più brutti di quello che pensano ma che hanno il merito di restituirli a loro stessi, aprendo nuove chance, nuove linee di fuga, nuove vie esistenziali.

Nora, Moby e Achille – i protagonisti dei tre racconti – si sentono responsabili della bellezza del mondo. Vogliono che le città in cui vivono siano splendide, piene di luce, irrigate d’acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non sia deturpato nè dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d’una ricchezza volgare. Nondimeno ciascuno di loro si rende conto che il Sud è un ossimoro: sono consapevoli di vivere in luoghi bellissimi che tuttavia sono spesso deturpati dall’incuria e a volte persino dalla spazzatura; sono altresì consapevoli che la generosità manifestata da alcuni individui è solo di facciata poiché è finalizzata a promuovere il loro prestigio sociale. Di fatto quegli stessi individui alimentano con i loro comportamenti pratiche ai limiti della legalità.

Nel primo racconto, la protagonista è Nora, una bibliotecaria che ha la passione per la lettura e il teatro, è impegnata nel sociale e dà lezioni gratuite e non richieste agli studenti che frequentano la sua biblioteca.

Probabilmente per deformazione professionale, ha il vizio di catalogare qualsiasi cosa. Ritiene che ogni sua scelta deve essere ponderata; scheda persino i suoi pretendenti e tuttavia non riesce a vedersi accanto a nessuno dei ragazzi che frequenta.

Intanto la città marina in cui lavora diventa sempre più opaca, sempre più invivibile per il dilagare della criminalità organizzata, per l’incanaglimento delle relazioni e per il passato che non passa (la parte maledetta della nostra tradizione). Viene colpita in modo particolare da un evento drammatico: nella stazione ferroviaria, un ragazzo si era lanciato sotto il treno, poiché suo padre non accettava che il figlio fosse omosessuale.

Nora si sente triste, avverte un forte disagio esistenziale e, appena ne ha la possibilità, si trasferisce in una biblioteca ubicata in collina.

Lì le sembrava di vivere in un tempo senza tempo ed era ancora possibile instaurare relazioni autentiche e cordiali. Lì, finalmente, stringe un’«intima amicizia» con Arturo, un maturo proprietario di una casina tutta bianca. Amavano spesso conversare, facevano passeggiate lunghissime «respirando il profumo del pino da frutto» e spesso Nora restava a cena con lui «sotto un cielo terso e fittamente stellato».

Con l’aiuto di Arturo, Nora si impegna nella tutela del territorio, progetta la costituzione di un ecomuseo con l’obiettivo di proteggere le bellezze di quelle terre e si attiva per riunire i contadini e gli abitanti del luogo in un’associazione per sostenere il progetto ecomuseale.

Ciò che legava Nora al proprietario della casina bianca era l’inquietudine che a volte scorgeva sul suo volto. Arturo diceva che la «vita è tutta una sequela di incertezze» e ciò nondimeno cercava il senso della sua vita. Di fatto cercava di comunicare con gli altri e nel contempo amava ritagliarsi uno spazio di intimità segreta. Arturo – dice Nora – le aveva confidato che «quando voleva capire meglio il mistero della vita e della morte era solito sedersi davanti ai ritratti dei suoi antenati per entrare in dialogo profondo con loro e ripercorrere gli scampoli a lui noti delle loro esistenze».

Nora avrebbe potuto apprendere tante cose da Arturo, ma un evento accidentale spezzò la sua vita. Nora considerava quella morte come un accanimento del destino. Arturo per lei era uno delle tante persone che sono come il vento. Sembrano esistere soltanto per andarsene.

Nel secondo racconto, il protagonista è Moby, che ha una storia difficile alle spalle. E’ figlio di una ragazza madre e, per di più, ha vissuto la sua infanzia in un contesto affettivo attraversato da disagi esistenziali. Moby è un ragazzo dai piedi nervosi: infatti, appena diventa maggiorenne, decide di andare via per giungere fino ai confini del mondo. Nondimeno, cambiando il luogo di residenza, Moby non riuscirà a risolvere i suoi problemi esistenziali e, venuto a sapere che suo padre si era fatto vivo e lo cercava, deciderà di tornare a casa.

Infine, nel terzo racconto, il protagonista è Achille, il quale si rende conto di non provare alcun amore per la sua ragazza, decide di lasciarla e di partecipare al concorso per entrare nell’Accademia della Marina militare, che è situata a Livorno. Qui, durante i tre anni di corso, si impegna nello studio, supera brillantemente gli esami, consegue il brevetto di ufficiale di marina e diventa un autentico lupo di mare. Quando non è in giro per il mondo, Achille manifesta il suo vivo interesse per tutto ciò che consente di ricostruire un tessuto di pensieri e di conoscenze degne. D’altra parte non riesce a dissimulare la sua insofferenza nei confronti delle dinamiche degradanti che investono lo spazio sociale e l’assetto urbanistico del suo quartiere.

I protagonisti dei tre racconti cercano ognuno a suo modo – attraverso il viaggio, lo studio e le relazioni – di pervenire alla loro sovranità, sono individui che esprimono bisogni sociali autentici, bisogni che sono opposti e complementari: il bisogno di sicurezza e quello di apertura, il bisogno di certezza e il bisogno di avventura, quello di organizzazione del lavoro e quello del gioco, di unità e di differenza, di solitudine e di comunicazione.

Le città del Sud – dice Morgese – sono troppo buie. L’antidoto non viene individuato nella nostalgia e nella memoria di un mondo perduto o in un piano identitario da rivendicare, bensì nelle forme di sociabilità che qui ed ora sono già disseminate sull’esergo del sistema (la collina): ossia nei nuovi modi di vita domestica, nelle nuove pratiche di vicinato, di istruzione, di salvaguardia del territorio, di presa in carico dei bambini e delle persone anziane, dei malati, ecc.

In fin dei conti Morgese dà ragione a Franz Kafka quando asseriva che conviene «lasciar dormire il futuro come merita. Se lo si sveglia prima del tempo si ottiene un presente assonnato!».

[recensione di Nicola Fanizza apparsa il 3 ottobre 2015 sul sito web letterario "www.nazioneindiana.com"].

 

Il libro dell’autore molese, all’esordio nel campo della narrativa, presentato al Culture Club Café

LE “CITTA’ BUIE” DI WALDEMARO MORGESE

La presentazione di “Città buie” si è svolta al Culture Club Café di Mola alla presenza dell’autore Waldemaro Morgese, con l’attrice Paola Martelli, Vitangelo Magnifico, Franco Catalano, Margherita Sciddurlo, Laura Redavid.

Waldemaro Morgese, un passato di dirigente e fondatore della Teca del Mediterraneo, nonché di docente universitario, ha già pubblicato numerosi pregevoli testi fra cui “La sottile linea verde”, la trilogia sull’amore per la cultura, per la politica e per l’economia, ed ultimo “Multitask”, una autobiografia. Ma quest’anno è al suo debutto nel campo della narrativa, con tre racconti riuniti sotto il titolo di “città buie”, pubblicati da Il Grillo, in una veste editoriale assai curata. La distribuzione è seguita da Domenico Sparno del Culture Club Café di Mola. Morgese – un giano bifronte, lettore/scrittore, credo, dal giorno che ha imparato a leggere e scrivere – ha immaginato tre personaggi, una donna e due uomini, che, diversissimi fra loro, sono accomunati dall’amore per la lettura ed altrettanto forte repulsione per il degrado delle città in cui si trovano, o si sono trovati, a vivere. Di qui il buio del titolo. La “storia di una bibliotecaria di provincia” racconta di Nora, che ha come dimora abituale e di elezione non una casa di bambola, ma appunto, una biblioteca.

Moby di “Ai confini del mondo” sin da ragazzo è ben determinato a eludere il destino che prevede nella sua cittadina di provincia e a seminare gli amici cui deve il soprannome ispirato al cantante USA. Ci riesce, sulla scia dei romanzi di Verne che tanto gli erano stati cari nell’infanzia: fin troppo dovremmo dire da moralisti, visto le esperienze in campo erotico ed altro ai limiti del lecito.

“Achille nell’ordinaria follia” appare rispetto agli altri due personaggi il meno folle quanto ad utopia. Lui “mite e saggio” (studi brillanti e carriera in Marina) trova negli amati libri e nei viaggi la forza e il coraggio di sperare in un avvenire meno oscuro per i luoghi di origine. Mara ibseniana, Moby melvilliano e l’omerico Achille: nomen omen?

Curiosamente, le tre storie si concludono tronche, senza sfumare. Ma un epilogo, quasi una grande parentesi graffa, comprende l’interrogativo sul futuro dei tre protagonisti, lasciando la speranza in uno spiraglio di luce che possa proteggere loro e rischiarare le rispettive città buie.

[recensione di Giuliana Kreis apparsa su “Fax settimanale”, Mola di Bari, del 23 maggio 2015, pag. 20].

 

CITTÀ BUIE

Quelle di Waldemaro Morgese qui raccolte sono storie capaci di raccontare un mondo concretissimo, moderno, restituendocelo, però, velato da un profondo senso di liricità e, a tratti, di nostalgiche mancanze. Conoscendo il percorso umano e professionale dell’autore, non sorprende che il primo racconto compreso in questo volumetto sia la Storia di una bibliotecaria di provincia. Nora, la protagonista di questo racconto, è una donna dalle ‘citazioni dotte’, che parla a tutte le persone che vanno a prendere libri in biblioteca, rivolgendosi a esse, ogni volta, quasi estraniandosi in un flusso di coscienza. Ella si lascia andare alla narrazione della sua vita come in un romanzo di formazione o piuttosto romanzo psicologico, di cui l’autore racconta in terza persona facendo però spesso uso dell’indiretto libero o inserendo pezzi in linguaggio diretto. Nora è una donna scossa da diversi eventi che mostrano la durezza di vivere in una città del sud dove regna la criminalità. Morgese mette in scena una bipolarità tra città e campagna, che riemergerà in tutto il libro. La città dove Nora è nata è percorsa dal malaffare, invece il luogo dove lavora, un paese a venti chilometri a sud da essa, possiede una parte collinare idilliaca. Il protagonista del secondo racconto, Ai confini del mondo, è Moby, chiamato così perché grande fan del cantante americano. Si tratta della storia di un ragazzo che ha vissuto una giovinezza di stenti e che a scuola si arrangia come può. La madre, di una «bellezza procace subito sfiorita», lo aveva dato alla luce quando il padre era già fuggito. Moby sogna di andar via, così lavora il fine settimana e durante le vacanze per racimolare i soldi che gli servono per partire. Egli è felice, ma ha paura dell’ignoto a cui sa di andare incontro. Anche in questo racconto si ripropone un’alternanza di immagini: da un lato il quartiere problematico dove Moby vive e dall’altro l’idillio mitico della campagna, del paesaggio immacolato dei pescatori. Il racconto si articola attorno al viaggio che Moby compie: egli infatti attraversa la Foresta Nera, poi la Russia e lo stretto di Bering per stabilirsi in Alaska, in una città moderna. In questo luogo, rapito dal sesso e dalla vita convulsa, spende tutti i soldi che guadagna, ma lo riporta alla realtà la telefonata che un giorno riceve dalla madre, la quale gli comunica che suo padre vuole conoscerlo: il senso delle radici, oltre che la curiosità, lo portano a scegliere di tornare indietro. Prevalgono, in definitiva, la consapevolezza delle origini e il richiamo identitario. In Achille nell’ordinaria follia, troviamo il protagonista che, assieme alla donna con cui condivide la passione per la musica e il ballo, Mara, vive in un mal messo quartiere di periferia. Achille lascia il lavoro da apprendista falegname ed entra come cadetto in accademia, intraprendendo un viaggio di mesi che lo porta lontano dalla città dove è nato e da Mara, che lascia. Achille è un uomo molto curioso, amante degli astri e dell’universo. Per l’autore è chiaro come la scelta di praticare il bene comune, che è una scelta di vita, può rischiarare la città o anche la campagna, che oggi non è più troppo distinta dalla visione urbana. Quello che presentiamo è un libro di viaggi, sia fisici che introspettivi, che porta i protagonisti a sondare le periferie del proprio mondo: «Le periferie, infatti, non sono soltanto un luogo ‘geometrico’ (i quartieri più lontani e segregati), ma una realtà più complessa, qualitativamente e concettualmente: può essere periferia anche una città tutta intera se i suoi standard sono pessimi» (p. 61). La narrazione è disseminata di notizie di attualità e notizie storiche, le citazioni letterarie sono molto presenti ed efficaci. Stupisce, inoltre, la capacità con cui Morgese fa emergere, nella mente dei lettori pugliesi, i nomi dei luoghi che descrive attraverso precisi riferimenti, senza però mai nominarli direttamente.

 [recensione di Antonio Giampietro apparsa su "incroci" n. 33 del gennaio-giugno 2016, pagg. 135-136].

 

Un romanzo di Waldemaro Morgese

ECCO COME SOPRAVVIVERE ALLE NOSTRE «CITTÀ BUIE»

Le città buie di Waldemaro Morgese (Il Grillo editore) ci offre uno spaccato della condizione degradata delle città del Sud.

Il libro si articola in tre storie, ognuna delle quali racconta il riscatto sociale dei rispettivi protagonisti: un’anziana bibliotecaria, un viaggiatore senza meta e un ufficiale della Marina.

Chi attraverso il viaggio, chi attraverso la mente, ognuno di loro si mette in salvo dall’ignoranza e dalla miseria che li circonda; alla fine però l’istintiva forza delle radici prende il sopravvento.

Nora dispensa lezioni gratuite e non richieste ad ogni avventore della sua biblioteca. Probabilmente per deformazione professionale, ha il vizio di catalogare qualsiasi cosa, compresi i suoi pretendenti, in modo che ogni sua scelta sia accuratamente ponderata.

Nora si arricchisce di cultura e teatro, ma soprattutto si rifugia tra le colline della campagna, che la ispirano in ogni gesto della sua vita. Ma la malavita arriva pure lì.

Poi c’è Moby che appena gli è possibile volta pagina; zaino in spalla e via: l’importante è che sia una meta lontana dalla sua realtà.

Con una storia difficile alle spalle vissuta in un contesto grigio, si guadagna con il sudore della fronte, una via di fuga e una vita più semplice. Ma veramente si può sfuggire ai problemi semplicemente cambiando superficie geografica?

Infine è la volta di Achille che lascia l’ordinarietà di un modesto impiego e di un amore sbiadito per diventare un lupo di mare.

Lui stesso è orgoglioso del salto di qualità che riesce a fare: da giovane abitante costretto a convivere con l’insofferenza urbanistica del suo quartiere, a uomo culturalmente vivace sempre in giro per il mondo.

Così Morgese dà voce a tre personaggi che non riescono a rimanere indifferenti di fronte a una realtà che li riguarda in prima persona e che dovrebbe interessare un po’ tutti.

Prodigatosi assiduamente in favore della sua città, Mola di Bari, e in generale della sua regione, il saggista pugliese traspone nero su bianco il declino della città moderna, a cui probabilmente ha più volte assistito in prima persona.

D’altronde è inutile parlare e scrivere di una farfalla, se non ne hai mai vista una: citando Rosa Balandi, ti può venir fuori una cosa graziosa e piacevole, una poesiola o un raccontino, ma non vera.

Il libro vuole essere una sorta di incoraggiamento ad assumere un atteggiamento positivo, almeno per guardare nella direzione del cambiamento. Anche se le città forse sono troppo buie, e come dice Morgese «non possiamo fare altro che sperare».

[recensione di Carlotta Panaro apparsa su Corriere del Mezzogiorno” di sabato 18 luglio 2015, pag. 11].

 

{Il libro}. La sua prima prova nel campo della narrativa

“CITTÀ BUIE” DI WALDEMARO MORGESE

Di Waldemaro Morgese, saggista, editorialista, studioso di economia aziendale, costruttore di attività noprofit, è uscito in questi giorni il suo ultimo libro, Città buie (Il Grillo editore, 72 pagine, 10 euro), che è la sua prima prova nel campo della narrativa – in cui però, precisa, lui non inventa nulla, registra semplicemente fatti e personaggi presi dalla cronaca reale. Nel testo infatti racconta tre storie che descrivono la problematica condizione umana nei moderni contesti urbani. Tre storie di vita, da quella dell’appassionata bibliotecaria e operatrice musicale, Nora, segnata da un amore sfortunato ma ugualmente vitale e propositiva nel suo cammino esistenziale, a quella del trasgressivo viaggiatore Moby col sogno di lasciare il triste luogo in cui era nato per raggiungere i confini del mondo, per esempio l’Australia (in realtà l’Alaska, n.d.r.), infine a quella di Achille, ufficiale di Marina, con l’inclinazione per la lettura, il sapere, la musica e il ballo. Sono esempi di giovani volenterosi accomunati dalla fiducia nella possibilità – soprattutto attraverso la cultura – di migliorare la collettività in città rese buie dall’ignoranza e dall’ignavia dei singoli cittadini. Perché la città non è soltanto fisicità, ma anche umanità presente con i suoi valori, umori, capacità di vivere i luoghi in simbiosi e plasmarli secondo criteri di Armoniosa convivenza. Una città in cui siano ben evidenti i segni inalienabili della civiltà del vivere, non i quartieracci bui e abbandonati a se stessi, come quelli dove Morgese colloca la narrazione dei suoi tre personaggi. I quali, giustamente, preferirebbero abitare in una città garbata, pulita, con i cittadini che depositano correttamente negli speciali contenitori le diverse spazzature, con strade ben asfaltate e addobbate di verde, con musei e biblioteche frequentabili anche di sera. Una città governata da amministratori competenti e responsabili, in cui la politica debba operare solo come controllo e non come spartizione di poltrone, con gli addetti agli uffici di ogni tipo educati e disponibili con gli utenti, con i mezzi di trasporto pubblico puntuali ed efficienti, e, auspicabilmente, priva di microcriminalità. “L’insofferenza urbana, sottolinea Morgese a questo proposito, è stata innumerevoli volte studiata dai sociologhi. Le periferie non sono soltanto un luogo ‘geometrico’ (i quartieri più lontani e segreti), ma una realtà più complessa, qualitativamente e concettualmente: può essere periferia anche una città tutta intera se i suoi standard sono pessimi”. E cita “ragazzi di vita”! insieme al successivo “Una vita violenta”, due famosi libri di Pier Paolo Pasolini, in cui il poeta-scrittore parla appunto di periferie urbane cresciute in modo disordinato, sporche, precarie, pericolose, dove vive gente votata alla morte, o destinata ad essere assorbita nel vortice altrettanto immondo della città “pulita”.

La speranza dell’autore – si legge nell’epilogo del libro – è che, come i protagonisti del racconto vorrebbero apportare con il loro generoso entusiasmo un cambiamento luminoso nelle loro città buie, così l’amore per la cultura e la passione civile da parte di chi ci governa dovrebbe rischiarare le nostre città in funzione del benessere comune.

[Recensione di Mary Sellani apparsa su “Quotidiano di Bari” del 15 maggio 2015, pag. 9].

L’approdo di Waldemaro Morgese alla narrativa

CITTÀ BUIE

Il prolifico e acuto saggista veste i nuovi panni del romanziere, in un’opera prima che rischiara le tante oscurità del contesto sociale con il riscatto individuale dei tre protagonisti.

Waldemaro Morgese ci ha abituato ai suoi snelli ma densi saggi nei campi dell’economia, della cultura, della politica. Forse non occorre ribadirlo, ma giova: nei tempi in cui, per dirla con Umberto Eco, anche gli imbecilli hanno diritto di parola attraverso i social network, Morgese porta la luce della ragione e dell’intelletto ad illuminare gli angoli bui di quelle città, piccole e grandi, dove spesso prevalgono la supponenza dell’ignoranza, l’attivismo festaiolo fine a se stesso, la maschera della falsa allegria.

Sono tre le storie che compongono “Città buie” (Il Grillo Editore): quella di Nora, la bibliotecaria; quella di Moby, il viaggiatore; quella di Achille, l’ufficiale di Marina.

Tre racconti che si saldano nel desiderio di riscatto, nella voglia di protagonismo consapevole, nella speranza di una vita migliore.

Consiglio questo libro in particolare ai più giovani: in esso troveranno non l’erudizione (sebbene non manchino le citazioni colte e coerenti con il testo), ma la possibilità di capire che il futuro si costruisce giorno dopo giorno con la forza della volontà e la passione per le proprie scelte.

Nora, Moby e Achille sono cresciuti in ambienti sociali e familiari svantaggiati, in “quartieracci” difficili e problematici. Potrebbero seguire l’onda del conformismo e dell’abitudine e, quindi, lasciarsi andare ad un destino ineluttabile di marginalità, di inedia sociale e culturale. Invece no: essi hanno dentro quel sacro fuoco che li induce a cercare la crescita individuale in un percorso anche difficile e tortuoso, ma alla fine appagante.

Nora, delusa in gioventù da una storia d’amore finita male, ha però in sé le risorse psicologiche per reagire al distacco e crearsi una ricca vita interiore. Si realizzerà in una lavoro da bibliotecaria in un comune a “venti chilometri a sud della sua città, in parte adagiato sulla costa, in parte arrampicato sul primo gradone di alcune basse colline, sino a raggiungere i centocinquanta metri di altezza”. Non è difficile scorgere la nostra Mola in questa descrizione: con un “lungomare progettato da un architetto straniero, con una sfilata di altissime palme e dove c’era perfino una libreria-caffè gestita da un ex-calciatore”.

Nora si scontra con la durezza di alcuni fatti di cronaca nera (l’assassinio di una giovane estetista, la protervia dei clan malavitosi provenienti dal capoluogo, il vandalismo infame) e trova rifugio nel declivio collinare, nella natura ancora in parte intatta – anche se sottoposta agli attacchi dell’agricoltura intensiva e di una vecchia cava trasformata in discarica abusiva -, e nell’amicizia con il maturo proprietario di una “casina” tutta bianca. E’ lì che, da cittadina consapevole, si dedica a prendersi cura di se stessa e dell’ambiente che la circonda assieme a persone che non si arrendono.

Moby, invece, vive la sua gioventù in uno dei quartieri più difficili della grande città capoluogo. E’ figlio di una ragazza madre e seduto alla panchina di una squallida piazzetta sogna di andare via. Lontano, in un lungo viaggio fino ai confini del mondo. Impara l’inglese, lavora quel tanto che basta a mettere da parte i soldi per l’avventura e parte: consapevole che soltanto attraverso il viaggio potrà mettersi alla prova, crescere, uscire dal ghetto (anche mentale) nel quale è costretto a vivere. Scrive Morgese: “C’è chi intraprende un viaggio per suggellare la necròsi della propria precedente esistenza, ‘tagliando i ponti’ senza mete né ricordi. Ma si può viaggiare per imparare o per allontanarsi dal presente, come Moby, o anche proiettati verso una speranza, come il fiume di profughi che tenta di sfuggire ad una sorte avversa e a una patria sterile”.

Moby osserva la realtà del suo quartiere e vi scorge i germi della dissoluzione. “Non voleva attendere che la sua città migliorasse, aveva fretta di andare lontano, senza una meta precisa, ma solo per marcare la distanza dai posti degradati in cui era cresciuto”. Ma è in cima al mondo, quando è arrivato e vissuto per un non breve periodo in Alaska, che una sorpresa lo attende e lo richiama, dal suo passato e dal suo sangue, a tornare indietro, con la consapevolezza di “poter partire e ripartire tante altre volte recandosi ovunque”. Il viaggio ha fatto di Moby un uomo.

Achille è “un giovane buono e molto comprensivo, uno studente volenteroso e un ragazzo romantico”. L’amore con Mara, con la quale condivide la passione per il ballo, ad un certo punto finisce e così Achille decide di darsi un futuro nella Marina Militare, coniugandolo ad una solida formazione culturale. “Aveva compreso che le mostrine, ossia l’autorità, per meritare la considerazione altrui devono basarsi sul valore e sulla competenza; gli ignoranti al massimo possono avvalersi del potere, che è poca cosa”.

Ora Achille – grazie alle sue buone letture e ai suoi studi approfonditi -, è in grado di capire le dinamiche sociali, e questo gli procura dispiacere e stordimento di fronte “all’ordinaria follia” nella quale vede avvolto e avvinto il “quartieraccio” della città nella quale è cresciuto.

“Lì la situazione restava drammatica, contrassegnata dalle diseguaglianze e ingiustizie, per cui gli abitanti continuavano ad imbruttirsi nella lotta per la sopravvivenza”.

Allo stesso tempo, Achille è contrariato dal clima da “panem et circenses” che domina nei centri grandi e piccoli dell’intera regione, con sagre e kermesse di ogni tipo in “un’orgia pantagruelica di gente che ambiva a suonare, mangiare, cantare, leggere, scrivere e parlare bene”. Achille si chiede: “ma le feste sebbene esprimano un bisogno ancestrale di condivisione e abbandono sono proprio necessarie? Si tratta sempre di manifestazioni effimere, ma non sarebbe più intelligente mettere su musei, archivi, biblioteche, teatri?”.

In ogni caso, per Achille “il rinnovamento non può venire dall’alto, come dimostrava il fatto che con l’unificazione il Meridione non si era affatto riscattato, ma solo dall’azione coraggiosa di chi vive in mezzo al popolo, lo conosce bene e sa coinvolgere i giovani”.

Achille, a dispetto del degrado e della povertà umana che contraddistingue la sua zona di nascita, pensa a quel parroco di un quartiere difficile di Napoli: “costui, costruendo con ragazzi spesso disadattati e colpiti dall’abbandono scolastico una vita comunitaria fatta di sensibilità per la cultura, l’arte, il teatro, la musica, aveva riqualificato il quartiere”.

Le tre storie ci insegnano che c’è sempre una possibilità, che la vita è un caleidoscopio immenso, anche se fuggevole. E, in ogni caso, che la forza di volontà può servire a forgiare le nostre vite (se il destino ci è benevolo e ci dà una mano), ma non sempre può condizionare i contesti sociali dai quali si proviene o nei quali si vive.

Le dinamiche delle società sono sovente troppo complesse perché una realtà possa mutare anche con un forte impegno personale: è necessaria un’azione corale e coraggiosa e, soprattutto, è determinante l’esempio che promana da figure autorevoli e carismatiche.

Eppure, il messaggio di Waldemaro Morgese è chiaro: “non possiamo, quindi, fare altro che sperare, fortissimamente sperare, ma anche spenderci per aggiungere un po’ di luce”.

[recensione di Andrea G. Laterza apparsa su “Città Nostra” del luglio-agosto 2015, pagg. 21-22].

 

CITTÀ BUIE, IL NUOVO ROMANZO DI WALDEMARO MORGESE

Oggi il mio cammino di ricerca nella letteratura pugliese tocca nuove sponde. Il mio approdo si chiama “Città buie” (il Grillo editore). Padre dell’opera che andrò a leggervi è Waldemaro Morgese, molese di nascita, già direttore della “Teca del Mediterraneo”, presidente dell’AIB Puglia.

Come l’autore ha accennato durante la presentazione dell’opera nel giugno scorso, la narrativa contemporanea è bipartita: da un lato il filone fantastico cerca di evadere dalla realtà per raccontarne una nuova, dall’altro il filone realistico che narra la realtà e cerca di fornire strumenti per modificarla. Waldemaro Morgese racconta la contemporaneità attraverso i suoi personaggi realmente “viventi” nel contesto urbano.

“Città buie” rientra nel più generale “ritorno alla realtà” nella letteratura attivo nella nostra epoca, quella che Romano Luperini ha definito “ipermoderna” o “neomoderna”. Nel romanzo di Morgese infatti l’attenzione è tutta volta verso il referente, la realtà esternaurbana vista e vissuta attraverso la prospettiva dei tre personaggi protagonisti. Lo stesso autore ha dichiarato di aver tratto ispirazione da fatti veri di cronaca appresi dalla lettura quotidiana dei giornali. Si deduce da questo e dalla lettura dell’opera, quanto la datità cruda del reale e la sua rappresentazione sia il perno della fatica letteraria di Waldemaro Morgese.

Ho fatto riferimento alle parole dell’autore a proposito della volontà di incidere sul collettivo contesto esterno (in questo caso attraverso la parola letteraria) perché di questa si fanno portatori i protagonisti di “Città buie”. Il romanzo è infatti tripartito: tre protagonisti, tre conseguenti storie, tre modi di vivere e tre approcci/reazioni alla realtà in cui vivono. Il trait d’union è rappresentato dalla cruda urbanità dilagante in tutti i suoi aspetti e concretizzazioni.

Andiamo nel dettaglio. La protagonista della prima tranche del romanzo è Nora, “bibliotecaria di provincia”. Nata in un “quartieraccio” (attenzione, questa parola torna formularmente ad accomunare i tre personaggi), Nora si laurea in Lettere e fa la bibliotecaria in un paese a metà fra il mare e la collina. Ciò che la caratterizza è, a mio parere, un atteggiamento di resistenza attiva e gentile. Già dalle prime pagine la si trova impegnata a “spiegare quanto importante fosse la cultura, soprattutto ai giovani che frequentavano la “sua” biblioteca […] negli anni successivi però quei ragazzi avrebbero fatto tesoro delle sue riflessioni. Nora ne era certa”.

Non solo. Morgese in flashback racconta la storia della non più giovane bibliotecaria, mettendo in evidenza come dai suoi primordi nel mondo abbia opposto alla crudezza del quartieraccio di nascita una gentile quanto ferma opposizione raziocinante. Nora prende ad analizzare il suo ambiente di nascita, le realtà umane che la circondano direttamente, la logica le impone di superare i mali personali con un procedimento graduale perché “altrimenti si resta sospesi in un limbo”.

Questo modus vivendi si proietta sul contesto esterno in sfacelo e dunque Nora reagisce, non attraverso la negazione e la fuga ma forte della spendibilità concreta della sua formazione. La “bibliotecaria di provincia” fa del suo bagaglio culturale medium per modificare positivamente la sua realtà. Non c’è in Nora l’alterigia dell’accademico, ma la volontà forte della cultura di migliorare il microcosmo che le appartiene. Di qui i suoi interessi proiettati verso il folclore, la geografia e l’architettura mediterranea, gli esempi umani positivi visti come sprone e protezione del suo “impegno […] come operatrice culturale e cittadina consapevole”.

Il secondo personaggio che si incontra è Moby, antinomico rispetto a Nora. Lei è apertura positiva e proficua, lui è chiuso e poco incline alla comunicazione. Entrambi con il quartieraccio alle spalle, l’una sicura della spendibilità della propria cultura letteraria acquisita con passione, l’altro studente distratto attratto dalle discipline tecniche. Nora è radicata nel suo territorio ferma sull’obiettivo della sua rivoluzione gentile, Moby è pronto a tagliare le proprie radici non appena ne ha la possibilità. La letteratura fornisce a Nora gli strumenti per agire in loco e, al contrario, è per Moby primo contatto con il concetto di viaggio.

Da bambino compie il suo primo percorso verso l’ignoto per e con la letteratura, precisamente grazie a Jules Verne. Diversamente da Nora, cittadina positivamente attiva, Moby “non voleva attendere che la sua città migliorasse, aveva fretta di andare lontano […] solo per marcare la distanza dai posti degradati in cui era cresciuto”. L’opposizione al mondo “buio” del ragazzo del quartieraccio non è quella della matura bibliotecaria. Moby sale letteralmente sulla cima del mondo ma la sua ascesa è in realtà una catabasi nei reconditi risvolti di sé. Nessuna resistenza attiva e sorretta dalla logica. Moby è puro impulso fisico portato agli estremi sino alla rottura, il richiamo delle radici e la conseguente intenzione di “ritrovare il pieno controllo di se stesso”.

La dialettica stanzialità/mobilità si risolve nel terzo personaggio del romanzo di Morgese, Achille. Ben lontano da quello omerico, Achille è solido, assolutamente non condizionato da moti sentimentali, fatto salvo il suo amore di gioventù che comunque accantona con tranquilla rassegnazione. Quest’ultimo personaggio ha in sé peculiarità dei primi due, declinate in modo originale. Achille ha la medesima tensione di Nora verso la cultura e lo studium inteso non solo come applicazione agli studi ma come impegno costante. Anche lui viaggia, abbandona il quartieraccio di nascita come Moby e mostra una grande passione per le materie tecniche e il ragionamento logico quantitativo.

Quella di Achille però non è una resistenza positiva e gentile all’oscurità della città ma un tentativo riuscito per grande volontà di opporsi al suo proprio buio ed emergere di conseguenza da quello della città, da lui analizzata come generale realtà in degrado in cui cercare di non fare più ritorno. Non c’è in Achille lo slancio fisico della gioventù verso il nuovo né la volontà di bonificare il terreno putrescente delle proprie radici. Achille è l’ego solo che da solo cerca di lasciare le sponde oscure della sua origine per non farvi mai più ritorno.

Il romanzo di Morgese non “finisce”. Il buio della città non è vinto e non vince. Nora, Moby e Achille vivono a libro chiuso, schegge emblematiche dell’umanità che vive l’oscurità della realtà.

Waldemaro Morgese non spinge il lettore a immaginare una conclusione per loro ma invita a sperare e a spendersi come loro, in modi molteplici, per dar luce al buio.

[recensione di Teresa Gallone apparsa l’8 luglio 2016 su www.rutiglianoonline.it]


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