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KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS

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Buona lettura!
W. MORGESE - "GRAN BERLINO. GERMANIA DOLCE E AMARA": recensioni

METTI UNA SERA A BERLINO. TRA IL DOLCE E L’AMARO RESTA SEMPRE LA BELLEZZA
Il pugliese Waldemaro Morgese e il viaggio.
Di Domenico Mugnolo, germanista
[recensione apparsa su La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 dicembre 2019].
Il volume di Waldemaro Morgese dal titolo Gran Berlino. Germania dolce e amara, Radici future, Bari 2019 (con deliziosi disegni originali di PierMarino Zippitelli) si presenta come una guida alla capitale tedesca e costituisce il resoconto di un viaggio di una decina di giorni intrapreso nel 2018 dall’autore, insieme alla sua compagna, la poetessa e docente di tedesco Angela Redavid.
In verità, il lettore si trova difronte (non inganni la scrittura piacevole e scorrevole) a qualcosa di ben più ricco e complesso di un vademecum per chi si rechi a visitare questa città che ha segnato di sé la storia di buona parte dell’Otto e del Novecento. Gran Berlino è il frutto di un’attenzione alla cultura di lingua tedesca che risale fin dagli anni di gioventù dell’autore. E dietro l’attenzione di Morgese si indovina non soltanto l’ammirazione per tanti aspetti della cultura tedesca, ma anche una certa simpatia. Ciò non significa, tuttavia, che egli dimentichi o sottovaluti gli aspetti tragici legati al nome della Germania. E però sa che «l’elaborazione del lutto è stata perseguita dal popolo tedesco con una fermezza e tenacia che pochi popoli hanno dimostrato nel corso della storia». Insomma, affrontando il viaggio, il corredo ideale e mentale di Waldemaro Morgese non poteva essere certo racchiuso in una valigetta: vi trovano posto letture numerose e importanti, riflessioni approfondite e acute. Né l’autore rinuncia a brevi incisi che ci restituiscono aspetti della sua stessa personalità: cosa cui non siamo più abituati a sentirci proporre da una guida, ma che ha una sua lunga e nobile tradizione, risalente all’epoca in cui chi si metteva in viaggio si considerava un viaggiatore, non un turista.
Il turista dei nostri giorni è abituato a girare per le città, inseguendo frettolosamente le mete suggerite da guide cartacee o virtuali, selezionate in base alla durata del soggiorno: un giorno, un week end, una settimana. In città si percorrono le vie che conducono ai monumenti segnalati come significativi mentre le altre, nelle quali si svolge la normale vita cittadina, vengono disertate. Non è per questo tipo di turista che scrive Waldemaro Morgese, che, certo, non ignora snobisticamente i monumenti cruciali della città, ma accanto ad essi cerca quegli angoli e quei luoghi che solo la curiosità (e le letture pregresse) suggeriscono di non ignorare, ma anzi a volta di privilegiare: l’obiettivo dei due viaggiatori non è depennare una dopo l’altra da una ideale lista le mete irrinunciabili: sanno bene che in dieci giorni sarebbe illusorio farlo. A loro preme cercare i luoghi che per l’uno o l’altro motivo richiamano memorie, letture, immagini. Così è per la leggendaria Volksbühne, il teatro che fu di Max Reinhardt, così è per il mitico cinema Babylon, così per il museo dedicato alla Blindenwerkstatt di Otto Weidt, un imprenditore che in piena Berlino dava lavoro a operai ebrei ciechi altrimenti destinati alla deportazione e allo sterminio.
Si concedono però anche soste in locali da ballo, ci portano a cena con loro a gustare una pizza o a goderci uno spettacolo teatrale scoperto un po’ per caso.
Tempo tolto alla visita della città? Niente di più sbagliato. Capire come ci si diverte altrove, come si cena, come si assiste a uno spettacolo è quanto di meglio ci sia per capire la città che si visita. La guida è frutto di scelte: meglio parlare con agio di quello si può dire nello spazio limitato a disposizione, anziché accennare a malapena a questioni che meriterebbero una trattazione approfondita. E tuttavia i temi di cui non parla, Morgese li ricorda: dal sistema bibliotecario (significativo oltre ogni dire che ogni museo abbia la sua attrezzata biblioteca per chi non voglia limitarsi a una visita anche attenta), al movimento del Bauhaus. Ed è come se ricordandoli lanciasse un suggerimento al lettore: queste cose andrebbero conosciute. Non a caso ci fornisce sempre opportuni suggerimenti bibliografici. Un volumetto che va messo in valigia, quando si parte per Berlino.
‘GRAN BERLINO’ IL BREVIARIO DI VIAGGIO SENTIMENTALE DI WALDEMARO MORGESE
‘Gran Berlino’ Germania dolce e amara: il breviario sentimentale di Waldemaro Morgese, edito da Radici Future Produzioni, con postfazione di Domenico Mugnolo.
Di Antonio V. Gelormini
[recensione apparsa su Affaritaliani.it di martedì 19 novembre 2019].
A definire così ‘Gran Berlino’, il prezioso volumetto edito da Radici Future Produzioni 2019, è lo stesso autore, Waldemaro Morgese, che in un certo modo ne delinea anche i caratteri dell’originale “compagno/manuale di viaggio”, per noi, allorquando descrive il ‘suo’ passe-partout introspettivo per l’affascinante capitale tedesca: un libretto di Abraham Yehoshua ‘Antisemitismo e sionismo. Una discussione’, Edizioni Einaudi 2004.
“Gran Berlino” più che una guida è davvero un breviario da leggere, rileggere e consultare: per tener vivi curiosità e interesse nella scoperta di questo suggestivo forziere di cultura, innovazione, storia e modernità, che fanno di questa città – cantata e decantata da artisti d’ogni sorta – un vero e proprio santuario laico ed europeo della bellezza.
Come Damiel e Cassiel, i due angeli de ‘Il cielo sopra Berlino’ di Wim Wenders, Waldemaro Morgese (che col regista tedesco condivide specularmente passione cinefila e caratteri delle iniziali) insieme alla sua compagna di viaggio, Angela Redavid, indicano, suggeriscono e spesso svelano al lettore/visitatore – con molta discrezione – una Berlino alquanto nascosta o in genere ‘tralasciata’ dalle tradizionali guide turistiche.
Un percorso binario, che mette in evidenza il destino ‘duplice’ della città che più di tutte riassume e riflette il carattere identitario della stessa Germania: l’ellisse con due fuochi al centro dell’Europa. Gioia e dolore, croce e delizia del Vecchio Continente, in cui la sua persistente dicotomia diventa esaltazione e orgoglioso slancio nazionalista: nel senso più nobile del termine.
Due Germanie, due Berlino, due facce dello stesso popolo. Amaro e dolce, mostruosità e bellezza, amore e crudeltà – apprezzabilmente descritti in due pagine anch’esse binarie (11 e 22), presumo inconsapevolmente ma significativamente appropriate – che raccontano e descrivono la cohabitation della grande musica, della grande filosofia, della grande letteratura e della grande arte, con le mostruosità aberranti e deformi dell’orrore più devastante.
Con le parole di George Steiner, l’autore ricorda come: “Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke a sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”.
In altre parole, la narrazione senza tempo e senza canoni dell’espressionismo germanico, nell’indomabile fermento volitivo: riassumibile nella fenice anch’essa bicefala – che accorpa la tradizione greca e quella egizia – capace di risorgere, ogni volta più attraente, dalle proprie ceneri o dalle profondità fluviali o marine più infime.
Nei suggerimenti discreti di Morgese, però, c’è anche la descrizione di una potenza economico-industriale, in cui l’esaltazione del Welfare è da sempre la spina dorsale di un Paese caparbio, che si ostina a trasformare la ricchezza ‘diffusa’ in benessere per ciascun cittadino.
Una serie di itinerari, di passeggiate e di esperienze in grado di far cogliere, fino in fondo, il carattere travolgente di una “Berlino, città in divenire”, che coltivando l’esercizio della memoria, prova a farne un antidoto efficace contro i fantasmi del passato e il rifiorire di mal-sopite spinte totalitarie.
Fermenti virtuosi che prendono forma nel mosaico museale senza pari, che Berlino può vantare e coordinare in una rete culturale cittadina, segnata da innovazione e proiezione tecnologica avanzata. Rinforzato da un sistema bibliotecario ricchissimo, altamente fruibile, sostenibile e all’avanguardia, nonché da un patrimonio e da una cultura cinematografici di raffinata e diffusa competenza.
Il tutto in una sorta di ‘Esprit de géométrie’ della Germania, che esplode nella proposta architettonica variegata all’insegna del ‘Futuro nelle radici’ di cui Waldemaro Morgese si fa cantore raro e autoctono, dato che come ricorda Domenico Mugnolo, nella sua postfazione, “il numero di resoconti di viaggiatori italiani in Germania è numericamente irrilevante, rispetto a quello di viaggiatori tedeschi in Italia”.
29-8-2020: "GRAN BERLINO" A BISCEGLIE

Sabato 29 agosto 2020, a Bisceglie, nell'ambito dell'undicesima edizione della Rassegna "Libri nel Borgo Antico", presso il Porto in via Nazario Sauro è stato presentato il volume di Waldemaro Morgese "Gran Berlino. Germania dolce e amara" (Radici Future Produzioni, Bari 2019). Il testo è stato presentato da Antonio Gelormini, che ha chiesto all'Autore di sintetizzare le ragioni per cui questo libro è stato definito, triplicemente, una guida turistica sui generis, un diario di viaggio e un breviario sentimentale. L'autore ha risposto dilungandosi successivamente anche su una interpretazione della Nazione tedesca e sul perché - a sua opinione - la Germania è oggi egemone nell'UE.
Nell'immagine: a sinistra A. Gelormini, a destra W. Morgese mentre parla.
OTTONE PESCE E CASA RICORDI

La mia cara amica Angela Annese, docente nel Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari e pianista di fama (allieva di Aldo Ciccolini e Dario De Rosa), ci ha donato un documento molto interessante che, oltretutto, arricchisce la nostra storia locale.
Angela Annese è anche una studiosa, quindi adusa a consultare archivi. Si è occupata di recente di Clara Wieck-Schumann, ritenuta da alcuni la concertista più famosa d’Europa e in particolare dei ricordi su di lei dei suoi allievi.
L’Annese nel corso delle sue ricerche nell’archivio storico di Casa Ricordi a Milano ha trovato una lettera autografa di Ottone Pesce, compositore e direttore d’orchestra nato a Mola di Bari nel 1889 e deceduto a Roma nel 1967, indirizzata a Casa Ricordi e più precisamente al comm. Renzo Valcarenghi in data 18 novembre 1945, con il corredo della risposta datata 23 novembre: quest’ultima è un referto dattiloscritto in copia da carta carbone, senza firma ma si presume sottoscritta nell’originale da uno dei tre “triumviri” che gestirono la Casa in quegli anni, dopo le dimissioni del Valcarenghi (1944): e cioè Camillo Ricordi (figlio di Manolo), Eugenio Clausetti e Alfredo Colombo.
La lettera di Ottone Pesce è interessante per quanto lascia intuire sulla gestione delle “cose” musicali durante il ventennio fascista. C’è da aggiungere solo che al nostro Maestro non rispose il Valcarenghi, nel 1944 come già accennato dimessosi dalla direzione della Casa perché traumatizzato a causa degli ingenti danni di guerra da cui le raccolte musicali erano state colpite, bensì direttamente la Casa, cui la lettera era stata recapitata per competenza dal Valcarenghi. Questo particolare è da sottolineare perché è noto come i rapporti fra Casa Ricordi e il fascismo fossero stati in certo senso “amichevoli”, dato che il Valcarenghi aveva rappresentato le case editrici nel Consiglio della Corporazione dello Spettacolo e Casa Ricordi aveva sostanzialmente annuito alle imposizioni della censura fascista e all’allontanamento degli Autori ebrei. Pur se questa amicalità – bisogna precisarlo - non fu totale: ad esempio Casa Ricordi difese Arturo Toscanini dopo il noto episodio dell’aggressione subita da parte di un gruppo di squadristi dinanzi al Teatro Comunale di Bologna nel maggio 1931.
In ogni caso colpisce il modo molto drastico con cui Ottone Pesce si esprime nella lettera (la pubblichiamo nella trascrizione dal corsivo autografo fatta dalla Annese, anch’essa depositata nell’archivio storico): «Il pubblico ha dimostrato chiaramente che tutta la produzione del ventennio fascista è stato un immenso bluff, perciò credo spetti alla Casa Ricordi riprendere le gloriose tradizioni di cui il grande Giulio andava giustamente orgoglioso».
Dalla risposta di Casa Ricordi, inviata ad Ottone Pesce a stretto giro, il lettore si renderà conto tuttavia che la speranza di Ottone di vedersi pubblicare le due opere, aimè, non fu coronata da successo. In parte per ragioni obiettive (e da questo punto di vista la lettera di risposta è molto importante per comprendere la grave situazione in cui si trovò la Nazione subito dopo la fine del conflitto mondiale), in parte forse anche per una qualche titubante mancanza di coraggio della direzione della Casa nel promuovere novità artistiche pur nella situazione difficile in cui versava in quel momento il teatro lirico italiano (si pensi, invece, al coraggio presto manifestato dal Piccolo Teatro di Milano con Paolo Grassi e Giorgio Strehler…).
Le due opere liriche di cui si discetta nelle lettere sono La sposa di Efeso (titolo originale La Cleanta) e La sposa del Sole. La prima una commedia lirica in un atto, la seconda una tragedia lirica in un atto e due quadri. Entrambe su testo di Antonio Lega, librettista, sceneggiatore cinematografico, “regista” e direttore di scena nato nel 1884 a Foiano in provincia di Arezzo e assai noto ai suoi tempi (lavorò molto al Teatro Costanzi di Roma e fu “regista” fisso al Teatro San Carlo di Napoli negli anni 1929-33 e 1936-37; sceneggiò i film Le rouge et le noir nel 1920 e nel 1933 La signorina dell’autobus). In particolare La sposa del Sole si svolge in Egitto, ad Heliopolis, al tempo della XIX dinastia faraonica (1313-1292 a.C.): a quel tempo il soggetto era un “topos” rientrante nell’esotismo, e infatti nel 1921 Bemporad pubblicò un romanzo di avventure dal medesimo titolo, opera di Luigi Motta (un emulo di Salgari), ma con teatro di svolgimento in questo caso non l’Egitto ma il Perù di Atahualpa e di Pizzarro.
La produzione musicale di Ottone Pesce è rilevante e comprende anche un balletto rappresentato al National Theatre di Broadway nel 1924 (Arcadia), numerose pagine pianistiche e romanze per canto e pianoforte.[1] Fu un allievo di Giacomo Setaccioli, compositore, docente a S. Cecilia e critico musicale. Fratello di Piero Delfino Pesce, sposò durante una tournée americana la giovane Carolina (Lina) Palmieri, soprano leggero, figlia di immigrati italiani, definita la “Amelita Galli Curci americana” per le sue doti canore. Quando tornò definitivamente insieme ad Ottone in Italia, la Palmieri partecipò ad una audizione per essere inserita nel coro dell’orchestra di Cinico Angelini: il famoso Maestro le disse che sarebbe stato un delitto accettarla, in quanto per le sue strabilianti capacità vocali meritava di continuare la carriera solista. Ebbero due figlie: Franca e Maria (quest’ultima andata sposa al poeta molese Argo Suglia). Franca, in tenera gioventù amica in Roma presso il Collegio delle Orsoline di Giulietta Masina (e di Federico Fellini), ora custodisce gli spartiti delle due opere. Durante un lungo soggiorno a Milano, Ottone Pesce entrò in sintonia profonda con lo scultore Bruno Calvani, nativo di Mola anch’egli: amicizia suggellata da una testina in bronzo, scolpita dall’artista, che raffigurava la piccola e riccioluta Franca. Dopo uno dei vari ritorni in Italia dagli USA (ove svolse una brillante carriera) a Ottone Pesce non fu più rinnovato il passaporto per la sua fede antifascista (era anche un fervente sostenitore degli Stati Uniti d’Europa), talché dovette restare in via definitiva a Roma.
I fili che legano Ottone Pesce alla città di Mola e alle sue personalità fra le più insigni sono dunque intensi. Oltretutto, quando l’Amministrazione della nuova Mola repubblicana volle celebrare nel Teatro Comunale, il 22 agosto 1948, il cinquantesimo della morte di Niccolò Van Westerhout, chiamò da Roma Ottone Pesce per dirigere l’orchestra d’archi: una performance che fu diffusa anche all’esterno tramite altoparlanti puntati verso la gremita piazza cittadina “XX settembre”. Un gesto importante e simbolico, che di certo intendeva sottolineare l’esistenza di una scuola musicale in Mola di Bari che travalicava i decenni unendo insieme le sue due personalità più importanti.
P. S. In altra sede, ho proposto agli amministratori di Mola di trasformare la Biblioteca Comunale in Fondazione Culturale, al fine di affidare ad un organismo specializzato – oltre la gestione bibliotecaria – anche la cura e valorizzazione delle tante espressioni del “genio” artistico molese nei secoli. Forse i cittadini di Mola potrebbero così finalmente conoscere compiutamente le loro autentiche glorie ed anche, chissà, le note di Ottone Pesce, ad esempio della Sposa del Sole: “una solenne e austera messa in scena dalle forti tinte drammatiche, con ascendenze quasi pizzettiane nella presenza di cori e grandi scene di massa così come nell’uso della modalità e nel dispiego di imponenti forze orchestrali” (Angela Annese). Finora sono inascoltato, ma non dispero!
Ecco i testi delle due lettere:
Roma, 18 Nov. 45
Egregio Comm. nel ’39 venni a Milano e presentai a Casa Ricordi due mie opere “Cleanta” commedia lirica in 1 atto e “Sposa del Sole” tragedia lirica in 2 atti, ambedue su libretto di Antonio Lega. Fanno spettacolo completo. Ella, che cortesemente mi ricevette, mi disse queste testuali parole: “Egregio maestro, se Ella avesse scritto musica degna di Verdi o Puccini, noi non possiamo far nulla. Il regime c’impone di pubblicare quelle opere che vuole imporre al povero pubblico pagante e include quelle soltanto nei cartelloni”. Difatti, pur essendo stata la mia “Cleanta” scelta dalla Commissione della Società degli Autori e segnalata al Ministero della Cultura popolare per la rappresentazione, quando gli impresari includevano la mia opera nei cartelloni, me la vedevo esclusa e cancellata; non essendo stato io mai iscritto a nessun partito e quindi, non avendo la tessera, sempre boicottato come direttore e compositore da quando ebbi la pessima idea di far ritorno dall’America, ove ero stato ben valorizzato nei due campi artistici. Ora Le domando, egregio Commendatore: potrebbe la Casa Ricordi, interessarsi delle mie due opere nuove? Io verrei a Milano, e, o farei sentire personalmente l’opera al piano oppure attendersi finché la Casa desse il suo responso. Al Concorso alla Scala, la mia opera fu dalla Commissione anche scelta in una prima selezione con altre due, ma poi tutto andò a vuoto. Le potrò documentare questo e mostrarLe insomma tutta la via crucis dei miei due lavori. Il pubblico ha dimostrato chiaramente che tutta la produzione del ventennio fascista è stata un immenso bluff, perciò credo spetti alla Casa Ricordi riprendere le gloriose tradizioni di cui il grande Giulio andava giustamente orgoglioso. Fui il vincitore su 84 concorrenti e per referendum del 1° premio nel Concorso indetto dalla Università Popolare di Milano per la “Canzone di Maggio” che è edita da Sonzogno. In attesa di un Suo gentile riscontro, con immensa stima La saluto distintamente.
M° Ottone Pesce
Via Benadir 8
Roma
23 Novembre 1945
Preg. Sig. M° Ottone Pesce
Via Benadir 8
Roma
Il Comm. Valcarenghi – che da oltre un anno si è ritirato dagli affari e quindi non fa più parte della nostra ditta – ci trasmette la la risposta la stim. Sua lettera 18 corr.
Mentre la ringraziamo per l’offerta cortese che colla stessa Ella ci fa di due sue opere liriche, Cleanta in un atto e Sposa del Sole in due atti, entrambe del librettista Lega, ci spiace doverLe comunicare che non ci è in nessuna maniera possibile di aderire alla richiesta oggetto della suddetta Sua lettera. La nostra Casa, che ha subito danni ingentissimi in seguito ai bombardamenti aerei nel 1943, dedica al presente tutte le sue energie al ripristino delle sue edizioni e del suo archivio teatrale andati prede del fuoco. In simili condizioni è assolutamente escluso che si possa accogliere nuovi lavori teatrali, quali che ne siano i meriti artistici. Si aggiunga poi che attualmente in Italia sono efficienti sì e no tre o quattro teatri lirici i quali, ben s’intende, si guardano bene dal mettere in scena lavori nuovi o nuovissimi…
Dolenti di non poterLe dare risposta migliore, con distinta stima La salutiamo.
[1] Su Ottone Pesce è possibile consultare: Bartolo Viviana, Monachino Antonella, Monachino Giuliana: Il Teatro Musicale nella Terra di Mola di Bari, Edizioni dal Sud, Bari 2007; Angela Annese, voce “Ottone Pesce”, in Operisti di Puglia. Dall’Ottocento a giorni nostri, a cura di Lorenzo Mattei, Edizioni dal Sud, Bari 2010.
3-8-2020: A CECILIA MANGINI LE CHIAVI DI MOLA

CECILIA MANGINI, NELLE RADICI DELLA NOSTRA STORIA È IL SUO LEGAME CON MOLA
Di Waldemaro Morgese
[pubblicato su “Mola Libera” del 6 agosto 2020].
Lunedì 3 agosto 2020 alle 20.00, nel Chiostro di Santa Chiara in Mola di Bari, sono state consegnate a Cecilia Mangini le chiavi della città di Mola (un’opera ceramica preziosa di Maria Elena Savini): tributo deliberato dall’intero Consiglio Comunale rappresentato in quest’occasione dal Sindaco. Il folto pubblico presente è stato allietato all’inizio dal meraviglioso gruppo corale queer “Ricchitoni”, schierato sul fronte LGBTI e alla fine dalla proiezione integrale di “In viaggio con Cecilia”, un documentario con la regia di Mariangela Barbanente e Cecilia Mangini prodotto da GA&A Productions nel 2012. La serata è stata organizzata dall’Associazione “Musicando” diretta da Annamaria Tanzi e da “Palazzo Pesce”, struttura animata da Margherita Rotondi.
L’immagine che si è presentata agli intervenuti è stata molto bella: Cecilia Mangini sul palco circondata da un “parterre” di autentiche speranze “cinefile”, tutte di Mola di Bari come lei e che con lei hanno interloquito: Mariangela Barbanente (regista e sceneggiatrice), Gianluca Sciannameo (film-maker, critico e studioso di cinema), Annalisa Mirizio (docente di letteratura comparata e di cinema nell’Università di Barcellona).
Purtroppo la città di Mola non ausilia granché la cultura (a meno che non la si confonda con l’eventistica…); prova ne è l’assenza totale di una valida presenza della filiera MAB (Musei-Archivi-Biblioteche), architrave della Cultura con la C maiuscola. Da tempo ho proposto agli Amministratori di trasformare la Biblioteca Comunale (che vivacchia) in una Fondazione culturale che possa implementare la filiera MAB, ma finora sono una Cassandra clamans in deserto. Si immagini il lettore cosa potrebbe – a mo’ di esempio – sortire di beneficio per i cittadini se, in una struttura museale molese, fossero incaricati appunto Mariangela Barbanente, Gianluca Sciannameo e Annalisa Mirizio di approntare la sezione dedicata a Cecilia Mangini? E se ciò si replicasse per le tante vite “illustri” della città? Chissà, forse Mola finirà per arrivarci quando nasceranno politici meno distratti e, se accadrà, diremo che non è mai troppo tardi, per farci coraggio!
Ma ora parliamo di Cecilia. Anche una parte della mia vita è intrecciata con lei, attraverso molteplici fili.
In una memoria che probabilmente sarà pubblicata a breve, lei ha scritto fra l’altro: «Lentamente sono riuscita a risalire ai tempi della Teca del Mediterraneo, quando la dirigeva Waldemaro Morgese e Maria Abenante ne era la vicedirettrice: di anno in anno la Teca organizzava una tavola rotonda che riuniva storici, giornalisti, critici, registi, scrittori e la più varia umanità. La Teca del Mediterraneo produceva anche documentari dedicati agli autori di origine pugliese e arrivò un anno, il 2010, che Waldemaro affidò quello su di me a due documentaristi che io non conoscevo, che non mi conoscevano e tutti insieme in coro rifiutammo quella scelta ma Waldemaro ostinatamente dichiarò che proprio perché non ci conoscevamo la sua era una scelta sacrosanta. Era nel giusto e lo dimostra quel documentario, “Non c’era nessuna signora a quel tavolo” di Davide Barletti e Lorenzo Conte, girato con sovrimpressioni in anticipo sui tempi, con un montaggio molto articolato e un bel crescendo musicale sul titolo “FINE”. In più c’è un booklet firmato Gianluca Sciannameo».
Al perché nel 2009 decisi di produrre un film-documentario (durata 66’) dedicato a Cecilia arrivo subito. Prima desidero rimarcare la parabola essenziale di Cecilia. Dopo una lunga attività a Firenze come organizzatrice nella Federazione Italiana Circoli del Cinema, cura la regia e la sceneggiatura di quattro intensi corti nel triennio 1958-1960: Ignoti alla città, Firenze di Pratolini, Stendalì (Suonano ancora), Maria e i giorni. Poi, con altri fra cui il marito Lino Del Fra e Lino Micciché, firma fino al 2004 innumerevoli altri documentari e dopo quell’anno (esattamente dopo Uomini e voci del congresso socialista di Livorno) entra “in sonno”. Dal “sonno” la tirano fuori anni dopo gli animatori del Cinema del Reale e la Presidenza della Repubblica, che la fregia della medaglia d’oro “per aver trasmesso alle generazioni future, attraverso la sua attività di cineasta documentarista, alcune delle più belle immagini dell’Italia degli anni ’50 e ‘60”. Il 2009 è l’anno in cui viene rivalutata la sua attività di fotografa: Claudio Domini, docente di Storia e tecnica della fotografia al DAMS di Gorizia, pubblica il volume L’impero dell’immagine. Cecilia Mangini fotografa 1952-1965, replicando un’operazione da lui già svolta su Luigi Di Gianni, tesa a investigare le relazioni fra inquadratura cinematografica e fotografia. Inoltre nel 2009 il “NododocFest” di Trieste valorizza la rassegna completa delle sue opere filmiche.
Nel Sud d’Italia la vera “ri-emersione” di Cecilia si chiama Non c’era nessuna signora a quel tavolo e segna come data il 2010: anno nel quale il film-documentario di Davide Barletti e Lorenzo Conte sulla vita di Cecilia viene distribuito e più di una volta subito trasmesso su RAI STORIA e in varie altre sedi in modo da farlo conoscere ad un vasto pubblico.
Perché nasce Non c’era nessuna signora a quel tavolo? È il fortunato spillover di un progetto di Teca del Mediterraneo, quello di valorizzare le identità della Puglia e dimostrare che l’identità – contrariamente a quanto sostenuto da una errata vulgata “progressista” – non è necessariamente un fattore di conservazione o immobilismo ma può essere un potente vettore di arricchimento culturale e di valorizzazione dinamica delle radici. Teca del Mediterraneo fu antesignana e successivamente anche le politiche culturali regionali compresero tutto ciò e si comportarono di conseguenza. Fatto sta che il 15 settembre 2010 nel padiglione 152bis della Fiera del Levante si svolse una importante manifestazione: “Verso una mappa delle icone culturali dell’identità pugliese: film/frammenti in progress”. Furono proiettati in anteprima assoluta alcuni fotogrammi dei due film-documentari in corso di completamento, i cui titoli diventeranno Non c’era nessuna signora a quel tavolo (su Cecilia, di Barletti e Conte) e Io e la mia sedia (un film sul cantastorie pugliese Enzo Del Re, regia di Angelo Amoroso D’Aragona). A fine anno i due film erano pronti e furono resi pubblici. Livio Costarella, nell’annunciare l’evento, intitolò il suo articolo Del Re suona la sua sedia e Cecilia ricorda (La Gazzetta del Mezzogiorno del 13 settembre 2010). Il progetto di Teca, si badi, era già in corso di implementazione con ricchezza di contenuti: operisti e musicisti, cineasti, il Cut/Bari, i futuristi pugliesi, il primo film muto pugliese Idillio infranto arricchito con una magnifica colonna musicale opera di Nico Girasole…
Dopo il 2010 la vita di Cecilia è stata un magnifico crescendo di popolarità, nazionale e internazionale; si sono anche vieppiù cementati i rapporti virtuosi con la Puglia e persino anche con la sua città nativa, Mola di Bari. La stessa decisione di Mariangela Barbanente di firmare con lei un film documentario in cui ripercorrere la “vita civile” di Cecilia degli anni “eroici” per compiere una sorta di bilancio su quanto successivamente accaduto nel Sud è la riprova più eloquente.
È da sottolineare che mentre il rapporto con la Puglia è stato vivificato essenzialmente dal Cinema del Reale e dall’Apulia Film Commission, quello con la città di Mola ha visto come protagonista soprattutto l’Associazione “Le Antiche Ville”, per la semplice ragione che Cecilia è nata nella contrada rurale molese di Brenca, nel Poggio delle Antiche Ville (a riprova dello spessore storico della ruralità molese) e in questa contrada da un certo momento in poi si è ritirata ogni anno, in estate, per trascorrere un ameno soggiorno con il marito Lino (deceduto nel luglio 1997), dimorando nella casina di campagna ereditata dal padre.
Ecco alcuni riferimenti che danno conto di questo legame della città nativa con Cecilia.
Il 14 dicembre 2002 su promozione dell’Associazione culturale “Realtà Nuove” e con il sostegno del Comune di Mola si svolse nel Centro Aperto Polivalente una retrospettiva intitolata Il cinema come strumento di indagine sociale: i documentari di Cecilia Mangini. Anton Giulio Mancino, nell’annunciare l’iniziativa, titolò il suo pezzo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del giorno prima Ho fatto ciak sulla realtà. E Gianluca Sciannameo, nel suo libro Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini (pubblicato da Teca presso Edizioni dal Sud in astuccio con Non c’era nessuna signora a quel tavolo) ricorda che prendendo la parola in questa retrospettiva Cecilia sottolineasse con amarezza come il documentario avesse perso via via visibilità e pubblico dopo la stagione vivace del dopoguerra.
Il 25 febbraio 2011 presso il Castello Angioino di Mola fu proiettato il film-documentario Non c’era nessuna signora a quel tavolo, con il saluto dell’Amministrazione Comunale e la presenza di Cecilia cui fu consegnata dall’Associazione “Le Antiche Ville” una targa. L’evento inaugurava la IX edizione della rassegna “Baricentro di cultura in collina”.
Sempre nel 2011, il 13 e 14 luglio, presso il Castello Angioino di Mola (replicata il 18 settembre presso Casina Morgese in Brenca), fu allestita dall’Associazione una mostra documentaria su “Cecilia Mangini maestra dell’immagine” (vi collaborò anche Maria Abenante): composta di 2 sezioni, la prima con l’esposizione di 6 fotografie scattate da Cecilia nelle campagne di Brenca; riprendono Maria Limitone, meglio conosciuta come “Maria di Capriati” per il suo legame morganatico con don Sebastiano Capriati (Maria è anche la protagonista di Maria e i giorni). La seconda sezione espose 9 cartoline postali spedite negli anni Venti allo zio paterno Angelo in 3 città: Arezzo, ove Angelo frequentava il Convitto Nazionale; Torino, ove frequentò l’Università e Roma ove frequentò il Centro Chimico Militare. Nonché altre 9 cartoline con vedute di Mola: ricevute tutte dallo zio paterno Angelo, che divenne un importante professore universitario di chimica, studioso di fama e Accademico dei Lincei.
Cecilia così scrisse all’Associazione “Le Antiche Ville” il 6 luglio 2011 in merito alle cartoline da esporre: «Da mio zio Angelo, fratello minore di mio padre, e anche da mio padre ho ereditato la fissa di conservare tutto, come se la vita potesse essere testimoniata da lettere, immagini, fotografie, cartoline – forse le più importanti di tutte: raccontano i luoghi, le città, i paesi, i nostri rapporti con i parenti, con gli amici. Figuratevi se non ho maniacalmente conservato quanto conservato da papà e da mio zio: vedete le foto di famiglia e altro che ho regalato al nostro ecomuseo. Le cartoline che si riferiscono alla Mola anni Venti e Trenta del secolo scorso e che sono state scelte per essere ingrandite come racconto di una comunità, hanno anche un retro, e questo retro parla in presa diretta dell’adolescenza e della giovinezza di mio zio. Sono stati soprattutto loro, mio papà e mio zio, a non farmi dimenticare il debito che mi lega a Brenca e a Mola». Così, credo, abbiamo scoperto una Cecilia non solo cineasta, non solo fotografa, ma anche collezionista affettuosa di cartoline!
Il 22 febbraio 2020, presso Casina Morgese in contrada Brenca, l’Associazione “Le Antiche Ville” ha promosso una serata musicale incentrata sulla proiezione di alcuni dei suoi documentari degli anni ’60 (Stendalì e Maria e i giorni), offrendo ai partecipanti anche una piccola mostra su Cecilia negli ambienti della Biblioteca “Il Poggio”.
Concludo. Cecilia è anche una (potenziale) scrittrice fascinosa. Per sincerarsene, il lettore scorra (è solo un esempio) la breve ma intensa sua prefazione intitolata “Omero persuasore occulto” in testa alla raccolta di 47 fotografie scattate da lei a Lipari nel 1952 (Lipari 1952. Viaggio nelle cave di pietra pomice, a cura di Claudio Domini e Mattia Felice Paino, Edizioni del Centro Studi Eoliano, Lipari 2015), della quale trascrivo qui solo l’incipit:
«Estate 1952: per fuggire dalla monotonia delle spiagge nascoste da quattro file di ombrelloni, Omero è il mio persuasore occulto: tutte le Eolie sono il regno degli dei del vento, però Lipari, identificata come l’isola delle pietre galleggianti, è in testa ai desideri miei. Purtroppo non ha alberghi né locande. A Panarea, invece, il medico condotto ha organizzato una trattoria sul lastrico di casa e per dormire affitta le casette calcinate bianche, abbandonate dagli isolani partiti in massa per l’Australia – allora eravamo noi italiani a partire per l’ignoto».
26-7-2020: MATERA, RICORDANDO LEONARDO SACCO

Waldemaro Morgese è intervenuto nel Borgo rurale “La Martella” (Matera) in presenza del Comitato di quartiere Quaroni, dell’Associazione culturale Adriano Olivetti e di altri cittadini del Borgo sulla figura del grande meridionalista Leonardo Sacco. Ha affermato che Sacco fu un grande meridionalista "non mainstream", sempre orgoglioso delle proprie opinioni e restìo a compromessi sulle questioni fondamentali. Al termine del suo intervento e di quello di altri (fra cui Mimmo Calbi, presidente dell'Associazione culturale "Leonardo Sacco") si è svolto lo spettacolo teatrale conclusivo del Festival “Nessuno resti fuori”, itinerante nei luoghi abbandonati di Matera. Di fronte al teatro “Quaroni” mai aperto ufficialmente, alla Biblioteca “Olivetti” (senza i libri di Sacco per gli interni mai risanati) e all’arena cinematografica in deperimento, tutti hanno potuto notare quanto l'occasione di Matera capitale europea della cultura sia stata sciupata, perché su tutto ciò si è glissato.
I "QUADERNI DEL CUT/BARI"

«QUADERNI DEL CUT». IL TEATRO DA BARI FECE CULTURA IN ITALIA
Il periodico del Centro universitario citato anche da Italo Moscati sulla prestigiosa «Sipario».
Waldemaro Morgese
[pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 14 luglio 2020, p. XVIII].
L’annata 1968 della rivista Sipario (nata nel 1946 e fin dal 1947 edita da Valentino Bompiani) si apre con America Hurrah di Jean-Claude van Itallie (un belga cresciuto dall’età di 4 anni a Great Neck – Long Island), inscenato dall’Open Theater di Joe Chaikin e si chiude sempre con America Urrà: il teatro della rivolta. Sfilano oltre all’Open e al Living Theatre, il Cafe La Mama, il Performance Group, Caffe Cino, Daytop Theatre, Theatre Genesis, Black Theatre, Gut Theatre, Bread&Puppet Theatre, Teatro Campesino, San Francisco Mime Troupe, Firehouse Theater, Om Theatre Workshop. Insomma una fetta dell’off America all’insegna di: “Broadway addio” e della massima di Manny Farber «gli americani devono capire che in arte correr dietro a ciò che è scontato significa perdere la partita in partenza».
Era una plastica dimostrazione che il teatro non poteva restare ai margini del sommovimento sociale in atto nel Mondo occidentale. Il fascicolo di giugno della prestigiosa rivista ci segnala anche l’audience che si erano guadagnati i Quaderni del Cut/Bari, perché Italo Moscati, nell’informare i lettori che anche Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato un suo manifesto per il teatro sulla rivista Nuovi Argomenti diretta dal medesimo Pasolini con Alberto Carocci e Alberto Moravia, si chiedeva: «sarebbe interessante apprendere le reazioni dei redattori di Teatro/Festival e dei Quaderni del Cut/Bari sul manifesto pasoliniano, specie sul punto in cui si parla di un teatro per gli intellettuali avanzati della borghesia cioè di un teatro per pochi, dato che in queste 2 riviste, non prive di contenuti rilevanti, giovani universitari chiedono ripetutamente un teatro politico e di idee per molti».
Proprio ad essere pignoli, curiosamente l’ultimo fascicolo del 1967 di Sipario aveva arato il terreno: infatti era stato dedicato interamente al teatro futurista italiano e proponeva ben evidente la riproduzione di un articolo di Antonio Gramsci del 5 gennaio 1921 in cui il futuro dirigente comunista dichiarava di approvare quanto stavano facendo i futuristi, cioè “distruggere” la civiltà attuale nel campo delle arti.
I Quaderni del Cut/Bari nascono sostanzialmente nell’ottobre 1967 curati da Vito Attolini, si arricchiscono di 9 fascicoli e dal giugno 1973 sono retti da un comitato redazionale con Achille Mango, Franco Fanizza, Egidio Pani, Vito Attolini, Antonio Serravezza, Antonio (Waldemaro) Morgese, Franco Perrelli e Gianni Attolini. L’ultimo fascicolo è del giugno 1983: in tutto, dal 1967, ben 22 numeri che sono la testimonianza più importante del fatto che il Cut/Bari non fu soltanto una compagnia di teatro sperimentale ma anche una presenza culturale di grande livello, di certo non provinciale.
I Quaderni del Cut/Bari ci permettono dunque di comprendere che il meglio della giovane intellettualità pugliese (ma non solo) e comunque che la Puglia partecipò in pieno allo “spirito pubblico” prevalente in quella fase esaltante dell’impegno sociale e dell’innovazione che ormai definiamo “Sessantotto”. Fase che per di più vide, sullo scenario nazionale, il fiorire anche di altre riviste di teatro, cui i Quaderni del Cut/Bari si affiancarono degnamente: La scrittura scenica (curata da Giuseppe Bartolucci), Biblioteca Teatrale (da Ferruccio Marotti e Cesare Molinari), Teatro (da Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini). Nonché la scelta da parte di riviste prestigiose di editare numeri monografici sul teatro: penso a Il Verri diretta da Luciano Anceschi, Ulisse da Maria Luisa Astaldi e Il Ponte da Enzo Enriques Agnoletti.
LA CULTURA E' ALIMENTO DELLA MENTE O ALTRO?

IL LIBRO POSSIBILE? NON PARLIAMO DI CULTURA
Waldemaro Morgese
[pubblicato su «Corriere del Mezzogiorno» del 18 luglio 2020, p. 9].
Il Covid-19 ha acuito una problematica molto poco mainstream ma che aleggia con sempre maggiore vivacità quale sorta di “convitato di pietra” nel dibattito mai sopito che si dipana nel nostro Paese sulla cultura. In tempi normali esplode di solito nei mesi estivi (sono quelli del moltiplicarsi delle rassegne, dei festival “del libro”, ecc.), ma quest’anno ha trovato nell’infezione un’altra ragione per manifestarsi, perché si fa un gran parlare su come costruire modelli culturali che non siano “quelli di prima”.
Il dilemma generale in cui tutto si inscrive è facile da formulare: deve la Cultura essere alimento della mente o deve alimentare lo sviluppo economico di un territorio, di una nazione, di un’enclave comunque connotata? Si badi: intendiamo riferirci alla sua vocazione fondamentale, caratterizzante, perché una volta assolto al compito – imprescindibile - di nutrire la mente, se la Cultura aiuta anche l’economia va da sé che ciò è benvenuto! Ma qualora i compiti secondari tralignino e divengano gli unici impatti sul serio perseguiti, che si fa?
Ogni volta che quest’ultima circostanza dovesse verificarsi (come purtroppo accade in molte rassegne di “cultura mordi e fuggi”, ad esempio “Il Libro Possibile” di Polignano per intenderci) penso che bisognerebbe avviare una semplice ma doverosa “operazione verità”: finanziamole pure queste rassegne “mordi e fuggi” ma non consideriamole operazioni culturali bensì di marketing turistico o di collateralismo a questo e quel potente di turno, o altro. Sostenere il consumo di pizze, aperitivi, B&B, ristoranti, hotel e posti barca e tutto l’indotto connesso sta bene, ma diciamo pane al pane e vino al vino: cioè, per carità, non parliamo di Cultura ma di altro, anch’esso accettabile, certo. Ma la mente, l’acculturazione, il sapere, la riduzione delle disuguaglianze attraverso l’apprendimento non c’entrano affatto, anche se ci sbattono sotto il muso pile di libri e di novità editoriali e scomodano grandi bestsellerrisiti.
Si badi, è un intero sistema di comportamenti “culturali” che andrebbe finalmente demistificato e ripensato: ho letto con godimento la sapidissima sostanziale stroncatura dello Strega sul «Domenicale» del 5 luglio scorso, ove l’imperdibile Gianluigi Simonetti parla di libri scritti in un italiano di plastica che sono all’incrocio fra convenzioni di genere e ammiccamenti glamour.
Se prevalesse il nutrimento della mente, allora la Cultura starebbe in filiera non con il Turismo (come accade ora al MiBACT) ma con l’Istruzione e la Formazione permanente; e Musei, Archivi, Biblioteche, Conservatori di Musica, Accademie di Belle Arti, Fondazioni e altro (cioè le molte istituzioni non effimere) costituirebbero il backbone, la spina dorsale della Cultura.
Del resto, qualora l’attuale organizzazione dei modelli culturali fosse funzionale dovremmo notare impatti positivi sul cosiddetto “capitale umano” (preferirei usare il termine “capacità umane”, come si esprime Amartya Sen); impatti che, aimé, non ci sono.
UN NUOVO PARADIGMA PER LE BIBLIOTECHE

Waldemaro Morgese ha risistemato, ai fini della pubblicazione di un ebook, il proprio intervento svolto durante gli "stati generali della cultura" a Caserta, in data 28 settembre 2019.
Ecco l'intervento nella sua versione integrale:
"Occorre partire, nella nostra speculazione sullo stato della cultura in Italia, da una constatazione di certo non ottimistica: gli istituti che la connotano non godono di grande salute, anzi.
La scuola, che produce cultura nelle sue pratiche più accorte e non solo erudizione nozionistica, non riesce a divenire l’organismo che servirebbe per i futuri cittadini del XXI secolo: ad esempio si misura uno iato profondo rispetto alla sensibilità per l’ambiente (mentre essa dovrebbe informare più incisivamente i programmi e la didattica).
Ma è in relazione ad una potenzialmente importante filiera della cultura quale il “MAB” (musei-archivi-biblioteche) che il precario stato di salute si evidenzia nel modo più clamoroso. Magari, stando all’interno della filiera quali operatori ciò non emerge in modo plastico, prevalendo di certo le logiche e le dinamiche di tipo autoreferenziale (e consolatorio). Ma osservando la situazione da un punto di vista esterno – qualunque esso sia – la “veduta” cambia e molto (purtroppo).
Intanto c’è la situazione difficilissima delle due principali biblioteche nazionali (Firenze e Roma): talmente difficile da sembrare quasi incredibile che non siano neppure paragonabili a strutture ben più efficienti e dotate, anche se operanti in ambiti geograficamente periferici come ad esempio lo scacchiere mediorientale (si pensi alla Nazionale di Teheran…).
Inoltre si registra – pesante come un colpo di clava – la sostanziale insignificanza attuale in Italia di biblioteche e archivi rispetto alla vita delle persone, quindi una sorta di irrilevanza o scarsa utilità welfaristica misurata dal fatto che le statistiche stimano in appena il 15% la frequentazione delle biblioteche da parte dei cittadini (per gli archivi la percentuale è più drammatica ancora, ad una cifra; per i musei la situazione non è migliore, salvo che per alcune strutture – non più di una ventina - che sono assurte a realtà di importanza nazionale).
Come si sa, le statistiche sono il frutto di una media e se scomponiamo i dati su base territoriale, capiamo meglio come alcune aree (il Sud naturalmente) siano vieppiù “desertiche”.
Questa situazione, già drammatica in termini puntuali, se osservata in modo prospettico ci induce a formulare congetture alquanto pessimistiche, perché di certo il futuro – a bocce ferme, per così dire – non è amico della filiera “MAB”, soprattutto delle biblioteche e degli archivi[1], a causa di vari fattori fra cui vale la pena di menzionare:
- l’intelligenza artificiale (IA);
- la realtà aumentata e tutte le tecnicalità che promuovo l’iper-realtà o l’ultra-realtà;
- la robotica;
- la progressiva transizione della specie umana allo stato di cyborg.
Si tratta di quattro fenomeni che congiurano tutti a “individualizzare” e quindi parcellizzare i percorsi di Knowledge e che potrebbero condurre addirittura, in un futuro non prossimo ma incombente, a “introiettarli” nella complessione fisico-mentale della persona, ad esempio attraverso impianto di chip. Uno scenario congetturabile, dunque, è che il fanciullo, il giovane, l’adulto del futuro prossimo venturo dispongano delle “scatole degli attrezzi” del Knowledge quali protesi personali. Sembra quasi di poter immaginare che i processi prospettici per la filiera “MAB” potrebbero essere simili a quelli che hanno portato i grandi calcolatori mainframe degli anni 50 a miniaturizzarsi sempre più, fino a divenire piccole scatolette facili da tenere in tasca o anche al polso!
Per affrontare tutto ciò e soprattutto le tendenze prospettiche bisognerebbe ragionare in termini strategici, mutando radicalmente le opzioni in campo, e inoltre compiere una riflessione approfondita sulle mission dei vari istituti del Knowledge.
Anzitutto è da promuovere fra gli operatori e presso i decisori istituzionali e politici lato sensu una visione della cultura e degli istituti del Konwledge fondata sulla integrazione diffusa. Bandendo i settorialismi e i micro-interessi, occorrerebbe dare vita ad una filiera espansa, vale a dire la macrofiliera “CIF”: cultura, istruzione, formazione (Long Life Learning); ove all’interno del segmento “C” vi sia una collocazione forte per il “MAB”.
Questa conversione di strategia consentirebbe di apprezzare l’importanza per il Paese di un comparto fortemente articolato rappresentativo di una esigenza di sommo valore, la “nutrizione della mente”; inoltre di chiarire anche come tutti gli istituti del Knowledge siano da preordinare a questa esigenza. Attualmente le istituzioni pubbliche e la politica hanno delineato una macro-filiera che unisce cultura e turismo, con la conseguenza che la prima si trova sostanzialmente sottomessa al secondo che prevale sul piano delle occasioni di business. Alimentare il reddito, peraltro, piuttosto che la mente, è ritenuto oggi – a torto – un asset prevalente!
L’integrazione di cultura, istruzione e formazione avrebbe un notevole impatto sul fine tuning delle mission particolari: quelle di scuola di ogni ordine e grado, università, alta istruzione, formazione permanente, musei, archivi, biblioteche. Mi soffermo qui sulle mission del “MAB”, cui si riferiscono gli stati generali della cultura in Terra di Lavoro, di cui oggi questa giornata casertana è parte.
Andando oltre una intuizione di alcuni decenni fa, pur molto fortunata e interessante, che discettò di biblioteche come “piazze del sapere” (cioè luoghi aperti della “conversazione” civile oltre che culturale), oggi base di partenza di ogni discorso innovativo sulla filiera “MAB” non può che essere l’approccio “eco”, intendendo per “eco” il termine greco òikos, casa. Cioè l’esigenza che la produzione ed elaborazione della conoscenza (Knowledge) e l’uso che se ne debba fare parta – rigorosamente e direi anche coraggiosamente - dalla consonanza con il proprio territorio, al fine di garantire la perspicuità e “giustificazione ad esistere” di qualsivoglia attività degli istituti della cultura: per le biblioteche è stato elaborata (anche da chi scrive) l’espressione “ecobiblioteca” a significare, appunto, la presenza privilegiata dell’òikos.[2]
Insomma occorre oggi un fine tuning delle mission dei vari istituti della filiera “MAB” in modo da ri-porli in consonanza con la società umana in evoluzione. Per indicare questo fine tuning (quando è radicale) fra la società in tumultuosa e rapida evoluzione e gli istituti del Knowledge di cui stiamo trattando, si suole utilizzare il termine “paradigma”, ricorrendo evidentemente alla speculazione del filosofo della scienza Thomas Samuel Kuhn, che di paradigmi ha scritto compiutamente nella sua opera The structure of Scientific Revolutions.
I cambi di paradigma, quando avvengono, contrastano il pensiero e gli assetti mainstream, quelli che si sono affermati nel corso del tempo precedente e sono avvertiti come dominanti. Li sostituiscono o più frequentemente li affiancano, a guisa di stratificazioni, talché gli “strati” precedenti non perdono subito o del tutto la loro giustificazione pur se cronologicamente sono scavalcati; divengono comunque ben presto obsoleti proprio perché è sorto e si è consolidato un nuovo paradigma.
Riguardo ai musei, un paradigma innovativo è stato alcuni decenni fa elaborato dalla “nouvelle muséologie” con protagonisti Hugues de Varine e Georges-Henri Rivière che concettualizzarono l’ecomuseo. Anche nel campo bibliotecario sono strati individuati vari paradigmi dagli studiosi di biblioteconomia ed oggi si discute su quale possa essere il più efficace ed anzi se ne possa esistere uno nuovo dopo la sequenza dei noti paradigmi “documentale”, “manageriale” e “sociale”.
Dobbiamo comunque porci una domanda: nell’epoca dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sottoscritta il 25 settembre 2015 dai 193 Paesi membri dell’ONU, ha un senso indagare su un nuovo paradigma in campo culturale con particolare focalizzazione sugli istituti bibliotecari? Se sì, avrebbe evidentemente anche un senso riposizionare sul piano delle mission la filiera “MAB”.
Di certo, se è da concepire un nuovo paradigma per gli istituti bibliotecari, esso deve avere fortemente a che fare con l’esigenza che la mission non sia solo quella di “interpretare” o “documentare” la società e la realtà più complessivamente, bensì quella di migliorarle o addirittura cambiarle (in meglio): le esigenze complesse, spesso anche drammatiche, che promanano dall’òikos congiurano in questa direzione, fino a suggerire una figura di bibliotecario per nulla neutrale o “indifferente” ma impegnato nella modificazione degli aspetti negativi o perniciosi che l’òikos presenta. Crisi ecologico-ambientali ma anche crisi sociali in termini di diseguaglianze crescenti, identità negate, globalizzazione squilibrante, povertà: ecco un possibile catalogo delle fenomeniche che, se aggredite, posizionerebbero le biblioteche in un “fuoco culturale” del tutto nuovo (e appassionante).
È forse questa la via maestra per contrastare l’obiettiva attuale irrilevanza welfaristica delle biblioteche, innegabile per quanti generosi e volitivi siano gli sforzi profusi dai bibliotecari stessi?
Quelle qui elaborate sono riflessioni utili per il dibattito e il confronto. Perché la “verità” è sempre una costruzione sociale che trae linfa da più ruscelli, più vene. Abbiamo cercato di contribuirvi."
[1] Riguardo ai musei il processo non è al momento chiaramente visibile, ma la “realtà aumentata” sarà in progressione decisiva per uniformarne il destino rispetto agli altri due soggetti della filiera.
[2] Mauro Ceruti ed Enzo Tiezzi hanno diretto dal 1990 una rivista quadrimestrale di “ecologia delle idee” intitolata proprio Oikos. La seconda serie, diretta dal solo Tiezzi a partire dal 1997, è stata pubblicata da Greentime Editori per volontà di Ekoclub International e si è posta come orizzonte la ricerca di «stili ecologici di pensiero» (cfr. l’Editoriale del n. 1 del 1997, p. 9). La rivista tuttavia è stata focalizzata sull’òikos inteso come sistema complesso di interazione delle dinamiche dei cicli biogeochimici globali, mentre nel nostro caso la focalizzazione riguarda le relazioni fra “capitale” naturale e “capitale” prodotto dall’uomo.
1961: ARGO SUGLIA SCHERZA SU VITTORIO GASSMANN

Ecco una eccezionale registrazione su nastro Geloso del 1961: Argo Suglia (Mola di Bari 1921-Roma 2018) "dialoga" con il nipote Waldemaro Morgese fingendo di essere Vittorio Gassmann. Nell'occasione recita la sua poesia "Ritorno" in cui canta la città natale, Mola di Bari. La registrazione è stata realizzata in modo artigianale dal nipote, allora giovane liceale sedicenne.
P.S. La poesia è pubblicata a pag. 62 dell'opera: Argo Suglia, "M'ha guardato dall'occhio di un gatto. Poesie", Giazira scritture, Noicattaro 2019.
Immagine: Argo Suglia.