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KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS: recensioni

KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS: recensioni - Casina Morgese

GLI SLOGAN? SPIA DELLA CATTIVA COSCIENZA

La cattiva politica sotto accusa in Katastrofé, l’ultimo libro di Morgese

Di Michele Casella

[su EPolis Bari inweek del 18 settembre 2020]

Mentre la penisola supera con spensieratezza l’estate 2020 e affronta la pandemia da Covid-19 con gioiosa e rinnovata superficialità, arriva nelle librerie il nuovo libro di Waldemaro Morgese “KATASTROFÉ, l’Italietta nel Coronavirus” (Edizioni dal Sud). Un titolo programmatico per una raccolta di testi che l’opinionista di EPolis Bari ha cominciato a comporre fin dagli inizi di febbraio, provando a interpretare ciò che è accaduto nei quattro mesi cruciali della pandemia italiana. Ne abbiamo parlato assieme a lui per capire cosa sta succedendo e se c’è ancora speranza per un popolo perennemente sprovveduto.

D. Il Covid potrebbe rivelarsi un evento educatore? Siamo ancora in tempo?

R. Secondo me potrebbe essere educatore, ma non educherà nessuno purtroppo. Dicono che io su questa questione sia pessimista, credo però di essere – piuttosto – realista: oggi, dopo i quattro mesi “orribili”, questa sensazione mi si rafforza. Cosa sta cambiando? Tutti cercano di tornare “a come prima”!

D. Anche per te il Covid ci racconta che l’uomo è dominante sulla terra per pura alea?

R. C’è un filo di pensiero che accomuna discipline diverse e di cui dò conto nella premessa al volume: l’essere umano è nato per caso e semplicemente per caso, non perché migliore, è divenuto il re della Terra. Si pensa che l’Homo Sapiens sia prevalso perché più intelligente, ma non è così! Questo significa che, in futuro, all’uomo potrebbe sfuggire di mano ciò che egli stesso produce nel campo della scienza e della tecnica, risultandone travolto…

D. Cosa ti preoccupa maggiormente, la strumentalizzazione politica o il negazionismo popolare?

R. Di certo la strumentalizzazione politica. Del resto nei 4 mesi “orribili” una potente macchina mediatica ha creato dal nulla una sorta di improbabile dux!

D. A tuo parere l’Italia continua a soffrire di un individualismo regionale assai marcato? Ci sono soluzioni possibili?

R. La formula centralistica non ha futuro, appartiene al passato. Solo che il decentramento nato con le Regioni 50 anni fa andrebbe revisionato, creando poche Macroregioni. Ma di cosa parlano i nostri politici? Del taglio dei parlamentari: surreale.

D. Una maggiore globalizzazione porta a responsabilità più determinanti?

R. La globalizzazione è ineluttabile. Edgar Morin voleva la “Terra patria”. Ma l’impalcatura istituzionale (e anche costituzionale) della globalizzazione è tutta da costruire, ora c’è solo la messa a fattor comune della finanza. Senza evolvere verso questa consapevolezza la globalizzazione può creare molte disfunzioni, in primo luogo le diseguaglianze e una maggiore rabbia sociale. Ma dove sono gli illuminati che agiscono di conseguenza? Non li vedo.

D. Lo slogan “saremo migliori” è ora diventato una frase canzonatoria, soprattutto online: abbiamo perso a tal punto la fiducia in noi stessi?

R. Questo slogan, come tu dici, è la spia della nostra cattiva coscienza, del fatto appunto che non siamo diventati Italia, siamo ancora Italietta. In Germania il piano pandemico lo hanno sempre aggiornato e poi applicato, noi abbiamo compilato un po’ di carte e lo abbiamo lasciato a dormire per 12 anni. Così abbiamo affrontato lo scoppio dell’infezione a mani nude.

D. Il giudizio che trapela nel tuo libro sull’Unione Europea è abbastanza severo, cosa si doveva aspettare di più?

R. Il coordinamento delle politiche sanitarie, che è mancato totalmente. Anche i cospicui aiuti deliberati quest’anno sono solo il frutto della preoccupazione di perdere un grande mercato delle merci. Gli Stati Uniti d’Europa sono di là da venire, purtroppo

D. Quale normalità dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro?

R. Sul futuro possiamo elaborare scenari, poi ci dobbiamo rimboccare le maniche per adoprarci a far prevalere lo scenario che più desideriamo. Ci può essere una normalità che ingloba i cambiamenti dovuti allo shock o quella che ignora del tutto lo shock. Io però sono un po’ pessimista, perché non vedo ceti politici e intellettuali all’altezza, intesi come massa d’urto (non le singolarità, che ci sono, certo).

 

MA QUESTO VIRUS È DAVVERO UNA…KATASTROFÈ. L’ITALIETTA FATTA CON I «SE»

Waldemaro Morgese e il diario di una crisi

Di Giampaolo Busso

[su La Gazzetta del Mezzogiorno del 9 agosto 2020].

Katastrofè. L’Italietta nel Coronavirus, è il titolo di un libro breve (Edizioni dal Sud, luglio 2020) che raccoglie diciotto articoli scritti da Waldemaro Morgese tra il 21 febbraio ed il 26 giugno dell’anno in corso, lungo le settimane del lockdown e delle diverse fasi di contenimento della epidemia. Questa ultima è la dichiarata protagonista e, al contempo, il soggetto al centro delle riflessioni: come si è diffusa nel contesto della globalizzazione, i suoi impatti di breve periodo, le conseguenze prospettiche delle quali è portatrice sulla salute, sulla economia, sugli stessi criteri di concezione delle vite individuali, dell’etica e della morale pubblica e privata, della convivenza sociale e del rapporto tra l’uomo e la natura.

In greco antico katastrofè indicava il rovesciamento di una situazione, anche di quello che può sembrare l’ordine naturale delle cose. In questa accezione etimologica esprime efficacemente il ribaltamento della usuale quotidianità intervenuto con il regime delle restrizioni. A sua volta, la definizione di Italietta sintetizza, secondo l’autore, l’amara constatazione della pochezza che ha saputo tesaurizzare la nostra Nazione: tanto che è stata capace solo di diventare (o restare) un’Italietta, non di trasformarsi in un’Italia. Il giudizio sulla conduzione della crisi è molto netto e chiaro. Morgese ritiene che vi sia stata una cinica svalutazione degli istituti della democrazia repubblicana e che una potente macchina mediatica abbia concorso a promuovere nell’immaginario collettivo la figura di un improbabile dux e, per altri versi, a rendere i cittadini assuefatti ad una sorveglianza totalitaria basata sull’uso improprio di dati individuali sensibili e sulla diffusione di numeri fasulli. La recentissima desecretazione dei verbali del Comitato tecnico scientifico è destinata ad alimentare ulteriormente polemiche e contrapposizioni di giudizi su questi aspetti così delicati.

Un paio di articoli di Morgese, pur convinto europeista della prima ora, chiamano in causa l’assenza di una strategia europea all’altezza della crisi sanitaria e i ritardi e le incertezze che hanno accompagnato la messa a punto, più che dei primi interventi, degli annunci di quelli che saranno i primi interventi concreti.

La storia e anche la cronaca non si fanno con i «se», tuttavia talvolta essi aiutano a capire come sarebbero potute andare diversamente le cose. Se si fosse intervenuti tempestivamente ed efficacemente sui primi focolai epidemici e sui contesti più esposti (RSA) e se l’attrezzatura territoriale della sanità ed il numero dei posti disponibili nelle terapie intensive non fossero stati devastati da tagli di spesa per circa 30 miliardi di euro negli ultimi otto anni, molto probabilmente il numero degli italiani deceduti (pari allo 0,068% circa della popolazione) sarebbe stato di gran lunga inferiore. Ovviamente c’è anche da chiedersi cosa sarebbe accaduto di più o di meno drammatico se le attività industriali fossero rimaste aperte.

Quello che è successo nei mesi scorsi in Italia non è assolutamente paragonabile alle tragedie sanitarie del passato, che siano le pestilenze descritte da Tucidite e da Manzoni o la «spagnola», eppure può assestare un colpo micidiale alla tenuta non solo economica del Paese.

Cento miliardi di euro provenienti da nuovo debito pubblico e da minore tassazione a sostegno di consumi che continuano a languire, un incremento inevitabile della disoccupazione, una perdita di oltre dieci punti di Prodotto Interno Lordo dei quali almeno un terzo irrecuperabile in quanto riconducibile ad imprese che hanno cessato di esistere o stanno per farlo, rappresentano dati sconvolgenti che gettano ombre pesanti sul futuro delle nuove generazioni quanto, ancora più drammatiche, sul presente. L’italiano di «domani mattina» dovrà affrontare un quadro di questo genere e le implicazioni potranno essere le più diverse su ogni piano.

Il diario di Waldemaro Morgese è una sorta di viaggio tra gli avvenimenti sociali e politici affrontati e vissuti, tra i sentimenti ed i richiami culturali e bibliografici che la solitudine suggeriva in quell’arco di settimane indimenticabili e, speriamo, non destinate a ripetersi.

 

KATASTROFÉ, L’ITALIETTA NEL CORONAVIRUS: IL PAMPHLET DI WALDEMARO MORGESE

L’opuscolo dell’editorialista e scrittore molese analizza, in maniera critica e senza alcuna concessione alla retorica, i vorticosi eventi della politica e della società italiana accaduti nel corso dei quattro drammatici mesi della pandemia.

Mola Libera, 17 agosto 2020 [quotidiano online, www.molalibera.it].

Di Piero Fabris

Leggere i diciotto elzeviri di Waldemaro Morgese raccolti sotto il titolo “Katastrofé – L’Italietta nel Coronavirus” (Edizioni dal Sud. Collana riflessioni 11. Pagine n° 52, € 8,00) significa ritrovarsi davanti a un mosaico dai tasselli vivaci.

Trattasi di un pamphlet che ci consente di avere delle visioni più chiare e di considerare i fatti da angolazioni diverse o, se vogliamo, con risonanze non schierate che inquadrano certe realtà volutamente opacizzate dai manipolatori dell’informazione, per i quali il trambusto susseguirsi dei fatti e il brumoso modo di affrontarli (i rallentamenti nel fosco come un atto dovuto alla giustizia) è uno strumento collaudato per la monopolizzazione delle notizie.

L’autore di queste pagine, nel presentare le azioni degli uomini, protagonisti della direzione della cosa pubblica, sottolinea e  accenta la presunzione di dominio con acutezza raffinata, cosicché Hybris e l’idea contagiosa dell’uomo di essere dominatore del pianeta, viene sottolineata con un’ironia sottile che ci schiude, retoricamente al dubbio sull’operare, sulla competenza, sull’onestà di alcuni addetti alla promozione del bene comune, i quali sembrano cadere, sempre in piedi, dalle sovrastanti nubi dell’onniscienza, per quanto riguarda il pianeta delle catastrofi.

La loro sensibilità è infatti straziata dalla ribellione della “terra matrigna”, che colpisce i loro animi illibati per la dolorosa perdita di quanti furono vittime del caso e mai della mancata ispezione delle infrastrutture volute e sognate per velocizzare scambi e collegamenti; si sentono profondamente uniti al lutto, per i disastri di ogni genere, per i quali i cinque minuti di “silenzio/raccoglimento” sono un obbligo istituzionale!

Ma Waldemaro Morgese che già aveva consegnato alle stampe nel mese di luglio 2019 un libricino di venti articoli pubblicati su “EPolis Bari inweek” e “Gazzetta del Mezzogiorno”, mostra il suo valore confermandosi osservatore privilegiato, utilizzando la sua penna per denunciare quella cultura effimera, dove i signori degli “eventismi” spazzano la vera cultura sostituendola con la spettacolarizzazione: tuoni senza pioggia, per i quali tutti accorrono, vittime incoscienti di quell’attimo di protagonismo di piazza dove i riflettori illuminano l’apparire.

L’autore smascherando con eleganza e ridicolizzando l’evidente mancanza di contenuti di certe vetrine dell’esibizionismo, che è spreco di soldi pubblici, sostituisce all’arenarsi in spelonche dell’opportunismo un disegno di irrigazione culturale che restituisce alla mente ossigeno per la creatività, riflesso d’identità e conoscenze che rendono florido il giardino dello scibile grazie al quale è possibile guardare al futuro con lungimiranza.

 

L’«ITALIETTA» E LA CATASTROFE DEL CORONAVIRUS

Il diario del lockdown di Waldemaro Morgese, alla ricerca di una nuova ecologia.

“Corriere del Mezzogiorno - Puglia”, 6 settembre 2020.

di Maria Villani (nome “de plume” di Mary Sellani)

Di Waldemaro Morgese, saggista, editorialista, scrittore, è uscito nel mese di luglio Katastrofé – L’Italietta nel Coronavirus (Edizioni dal Sud, pp. 52, euro 8), un libro breve che raccoglie alcuni suoi articoli pubblicati sulla rivista EPolis Bari in week tra il 21 febbraio e il 26 giugno 2020, lungo tutto il percorso di lockdown dovuto all’epidemia da Coronavirus. È una sorta di “diario” della fase più acuta dell’infezione arrivata nel nostro Paese in cui sfilano alcune tematiche che Morgese sottopone ad una severa riflessione politica e culturale: dalla diffusione del virus nel contesto della globalizzazione, alle conseguenze negative sulla salute, sull’economia, sulla scuola, e sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente.

Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa che ha ribaltato la “normale” quotidianità della nostra vita con il regime delle restrizioni e delle prescrizioni sanitarie: praticamente uno shock, o, come dice l’autore, una katastrofé, la quale, d’altra parte, ha messo ancor più in evidenza la debolezza politica, le mancanze, i ritardi dell’Italia (definita appunto Italietta), non assurta ancora a dignità di Nazione. Dal tenore degli articoli si coglie pertanto il pessimismo di fondo dell’autore anche rispetto alla conduzione di Governo e Regioni proprio nei mesi cruciali della pandemia; allo stesso tempo egli coglie l’assenza di una strategia europea all’altezza della crisi sanitaria non essendo essa stata capace d’intervenire tempestivamente ed efficacemente sui primi focolai epidemici.

Tuttavia, se non altro, questa emergenza ha avuto il merito di rimettere in primo piano il tema dell’urgenza di riconoscere seriamente la più grande questione della nostra epoca: la salvezza del nostro Pianeta. Si tratta infatti di un tema complesso che interseca ogni aspetto delle nostre vite e che richiederebbe di essere raccontato in modo più comprensibile di quanto fatto finora, di spiegare, per esempio, più approfonditamente il perché del riscaldamento globale, come funziona e cosa determina nel mondo naturale, e quanto esso dipende effettivamente dal comportamento umano. Perché se questa relazione esiste, è arrivato allora il tempo di prenderne finalmente coscienza e di attuare un cambiamento radicale del nostro tipo di sviluppo. Il quale, con la globalizzazione, ovvero con l’occidentalizzazione del sistema capitalistico, ha portato ad un aumento delle diseguaglianze sociali, ad una forte polarizzazione tra ricchezza e povertà, e ad una finanziarizzazione dell’economia. E cercare invece di attuare quell’«ecologia integrale» tra umanità e creato indicata dallo stesso Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sì del 2015. Se la pandemia ha reso grave la rottura tra noi e il creato, si tratta ora – come auspicato nell’enciclica – di ricostruire quella nativa armonia.

Un aspetto di questo tentativo di ristabilire l’armonia originaria la cita Morgese nell’articolo “La campagna è il futuro?” in cui riferisce di una mostra ospitata nel febbraio scorso al Guggenheim Museum di New York, dal titolo “Countryside. The future”, ideata dall’architetto olandese Rem Koolhaas, basata sull’idea che le aree rurali possano essere un’importante soluzione ai problemi del presente; e che dunque, la montante urbanizzazione non sia affatto un fenomeno ineluttabile. Tra arditezze varie e dati satellitari captati in tempo reale nell’elicoide del Museo, la mostra espone un trattore e un campo sperimentale di pomodori maturati con i Led e coltivati da un esperto di idroponica, David Litvin, ribattezzato dai newyorkesi Tomato Man.

 

KATASTROFÉ. L’ITALIETTA NEL CORONAVIRUS

Severe riflessioni di Waldemaro Morgese durante il lockdown

Di Vitangelo Magnifico

[su Città Nostra n. 199 del settembre 2020]

Quattro mesi sono lunghi da passare standosene chiusi in casa ad ascoltare le notizie sull’epidemia che avanza e che ci vede, come italiani, protagonisti di un’esperienza che era difficile prevedere solo poche settimane prima, quando tutto scorreva nella routine quotidiana e con abitudini consolidate in decenni di pace. “Siamo in guerra” si sentiva spesso dire; ma non c’erano macerie e cadaveri nelle strade. Il senso della morte passava con i comunicati giornalieri della Protezione Civile e le immagini televisive delle chiese piene di bare e delle colonne di camion militari che le trasportavano in cimiteri che avevano ancora posto per accoglierle. C’era chi si dava coraggio cantando dalle finestre e chi faceva tesoro delle nuove tecnologie per aggregarsi a distanza; nascevano cori, orchestre intere mentre industrie, negozi, bar, ristoranti, cinema, teatri, stadi, scuole, università, chiese e perfino ospedali invasi dal virus chiudevano con un crescendo di frustrazione e preoccupazione per il domani. Divenne proibito perfino uscire di casa; l’unica occasione per farlo era andare a comprare qualcosa da mangiare, ma invece della tessera annonaria si doveva portare un’autocertificazione! Si rischiava una multa salata anche per andare a lavorare! Anche le due Camere del Parlamento si svuotarono e i pochi Onorevoli presenti a rappresentare il tutto sembravano larve impaurite. Ogni azione venne regolata dai Decreti emanati in successione dal Presidente del Consiglio dei Ministri nelle diverse fasi della pandemia dopo aver mediato una riottosa compagine governativa e chi “non voleva chiudere”.

Dopo, gli italiani scoprirono di essere stati più bravi degli altri popoli a combattere un nemico invisibile, un coronavirus, che, stando agli esperti, era passato da una specie di pipistrello all’uomo. E andò a ruba un libro pubblicato diversi anni prima in America che aveva previsto tutto! Nonostante gli avvertimenti, al suo arrivo il virus trovò una strada spianata dall’assenza di un piano anti-pandemico; e gli italiani si trovarono senza mascherine e senza tamponi e i sanitari perfino senza gli ausili necessari per evitare le contaminazioni. Passeranno alla storia le immagini degli infermieri avvolti nelle buste della spazzatura! Una vera e propria catastrofe!

Waldemaro Morgese non era alla finestra a cantare e nemmeno seduto davanti ad un PC a chattare o contestare fake news, ma meditava da par suo e appuntava le sue riflessioni che settimanalmente affidava a EPolis Bari in week per la pubblicazione. I diciotto brevi articoli pubblicati dal 21 febbraio al 26 giugno sono stati, in seguito, raccolti in Katastrofé: L’Italietta nel Coronavirus (Edizioni dal Sud, Bari; pp. 52; € 8,00).

Già in premessa Morgese si chiede: Insomma: il Covid-19 dobbiamo considerarlo un evento epocale o un incidente di percorso? Un rivolgimento radicale oppure un semplice sconvolgimento che – superata la fase del suo drammatico svolgersi – sarà progressivamente riassorbito non avendo in sé la forza di poter ostacolare il ritorno al “come prima”? E da quel rigoroso osservatore evidenzia antichi vizi italici utilizzati per mascherare la pretesa ineluttabilità di certe decisioni, da italietta che non riesce a diventare Italia anche in una drammatica situazione. Lo irrita un pessimo governo e l’atteggiamento del premier, che arriva a definire, più volte, Fregoli (Leopoldo Fregoli era un attore e regista trasformista, dal quale il termine fregolismo) che gestisce l’emergenza a colpi di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), che per Waldemaro sarebbero una “furba impalcatura decisionale per sterilizzare il Parlamento e prendersi tutto il proscenio” come un novello DUX, al quale si ricorre nei periodi bui.

Non sono molto d’accordo su queste preoccupazioni. Ritengo che la nostra democrazia sia abbastanza forte per consentire certe forzature. La vigilanza del Presidente Mattarella e di tutti gli organi istituzionali, compreso il Parlamento (che non ci fa una bella figura!) e i Sindacati sono sufficiente garanzie. Per Waldemaro sono, comunque, segnali pericolosi; egli vorrebbe, invece, la responsabilizzazione dei cittadini che passa attraverso la fiducia e la trasparente informazione, anche per poter gestire il dopo emergenza. Le avventate uscite di certi Ministri, i comportamenti di alcuni Presidenti di Regioni (pomposamente chiamati Governatori, che approfittano del momento per chiedere maggiori autonomie!), le posizioni delle opposizioni, interessate solo a far cadere il Governo e andare alle elezioni con la speranza di vincerle, e gli scienziati che litigano e si offendono in diretta televisiva non offrono uno spettacolo confortante!

E che dire degli Italiani con la memoria corta che hanno rimosso subito le colonne di bare e corrono in vacanza e a ballare appena si passa alla fase tre senza un minimo di precauzione e fornendo numeri di telefono errati per non essere rintracciati in caso di positività al COvid-19! Chi diceva che ogni popolo ha il Governo che si merita? Eppure, grazie a quelli bravi e seri, di meriti gli Italiani ne hanno accumulato nei quattro mesi di lockdown. Ma l’italietta è più forte dell’Italia. Il timore di Waldemaro Morgese è che a vincere sarà come al solito la prima, per tornare alle ammucchiate pre-covid e magari approfittare per accaparrarsi i soldi che l’Unione Europea ci darà e ci presterà per riparare i danni del coronavirus che si sono aggiunti a quelli pregressi. A ben vedere, Waldemaro Morgese si preoccupa più dei danni morali; e non si può che essere d’accordo.

Per chiudere, permettetemi una considerazione di tipo professionale. Nel quattordicesimo articolo dal titolo “La campagna è il futuro?”, stimolato da una mostra a New York (al Guggenheim Museum, allestita ma mai aperta al pubblico per la pandemia), Morgese ritiene “che le aree rurali possano essere un’importante soluzione ai problemi del presente e che, dunque, la montante urbanizzazione non sia affatto un fenomeno ineluttabile”. Nella mostra c’è un campo sperimentale di pomodori maturati con i LED gestito da un solitario esperto di coltivazione idroponica che i newyorkesi hanno battezzato Tomato Man. Morgese, alla fine dell’articolo si chiede: “Dove sono i nostri Tomato Man?”. La risposta, facile, è: alla periferia di Mola, nell’Azienda Sperimentale “La Noria” del CNR. Sono Ricercatori pluripremiati a livello internazionale per le loro ricerche innovative sulle coltivazioni idroponiche. È probabile che il Tomato Man newyorkese utilizzi tecniche scoperte a Mola. Ma nessuno lo sa; perché nessuno se ne cura, perché la nostra agricoltura deve essere quella “bella” dei decenni passati non quella progredita americana! Forse i tomato men, nostri, innovativi, non ci piacciono!

 

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LA RETE DEI MUSEI IN PUGLIA

LA RETE DEI MUSEI IN PUGLIA - Casina Morgese

I ritardi della cultura al Sud. La realtà aumentata, lo storytelling: esistono in altre Regioni

IL DIO DELLA LENTEZZA È NEI MUSEI PUGLIESI

Waldemaro Morgese: la tecnologia assente

In questo articolo Waldemaro Morgese chiede maggiore innovazione nei musei del Sud

[La Gazzetta del Mezzogiorno, 18 settembre 2020, p. 15].

Di Waldemaro Morgese

Siamo nel XXI secolo e ragionando di musei non si può evitare di accennare alla «realtà aumentata», di cui un visitatore del museo può giovarsi utilizzando i cosiddetti vearable devices, ad esempio i visori e gli occhiali intelligenti. Inquadrando un referto, si aprono al visitatore gli overlays, cioè le informazioni aggiuntive sotto forma di testi, immagini, suoni, parlati, statici o dinamici che siano. In sostanza si tratta di narrazioni (storytelling) virtuali: se ben costruite, sono esperienze sensoriali di eccezionale fascino e profitto informativo.

Dove sono in Puglia? Purtroppo nei musei pugliesi non albergano gli iper-mondi. Al visitatore si squaderna una realtà sconsolatamente «uni-versa», fatta di referti materiali offerti al godimento visuale, ma di «multi-versi» non c’è quasi mai traccia. A Bologna prospera l’Integrated Research Team – Alma Heritage Science dell’Università Alma Mater: si tratta di imaging multispettrale, tomografia computerizzata 3D, rendering digitale, radiografia digitale… In Puglia non vi è nulla di simile.

Poiché sono stato anche un bibliotecario, sono solito conservare gelosamente i libri che posseggo. Ne ho preso uno dai miei scaffali: I musei della Puglia-Guida illustrata, curato dall’Assessorato alla Cultura della Regione Puglia nel 1981. Censisce una novantina di strutture, «musei» artistici, archeologici, etnoantropologici, storici e naturalistici. Confrontando quella situazione con l’attuale, anche giovandomi di una ricerca di due studiose pubblicata sulla rivista dell’Università di Macerata Il Capitale Culturale (n. 6 del 2013), posso sostenere tranquillamente che la situazione non è cambiata granché dal 1981. Per cui la frase attribuita a Peter Handke, «Perché non ci si è mai inventati un dio della lentezza?», che ho appreso grazie a Byung-Chul Han, un filosofo allievo di Peter Sloterdijk, in Puglia riguardo ai musei non vale: qui il dio della lentezza non solo esiste ma opera efficacemente!

Fuor di celia.

Ci lasciamo un po’ distrarre dalle sbandierate procedure per nominare i direttori dei musei (tredici nomine con giurie specchiate per i musei statali proprio in questi giorni, sulla base di un bando internazionale emesso a gennaio, che si aggiungono ad altre ventisette); ci lasciamo fuorviare anche dalle statistiche relative alle presenze totalizzate da ciascun museo (dato che di per sé non significa granché); ci infervoriamo per esaltare o svalutare l’intervento di testimonial-influencer (come accaduto al MarTa di Taranto con Chiara Ferragni), del tutto ininfluente. Ma sulla questione fondamentale tutti tacciono (forse per carità di patria?). Che è molto semplice: il sistema museale pugliese è arretrato, ripiegato su se stesso, poco aperto alla contemporaneità, insomma statico, restio alle innovazioni e alle sperimentazioni. La riprova? Manca in Puglia un grande museo del clima; manca un museo degno di questo nome sull’emigrazione nel corso dell’Otto-Novecento; manca un grande museo dell’acqua (perché non insediarlo nel Palazzo Cambellotti di Bari, trasferendo altrove gli uffici Aqp?); manca un vero museo della scienza e della tecnica o un grande museo della Terra. Presenze necessarie per declinare in termini contemporanei l’identità regionale e a questo proposito è indubbio che il processo strategico di nuova implementazione del sistema museale non può che essere in capo ai poteri regionali con l’obiettivo di staccarlo dalle sirene dell’economia turistica e incardinarlo nella filiera del Knowledge (l’istruzione, il sapere, la formazione, la cultura). Infine pensiamo alla rete degli Ecomusei, tramiti formidabili con le Comunità di riferimento: ultimi nati in Puglia, sono stati trascurati in questi anni e attendono un rilancio.

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FRANCA PESCE, IN MEMORIAM

FRANCA PESCE, IN MEMORIAM - Casina Morgese

FRANCA PESCE, IN MEMORIAM

Il 14 agosto 2020 Franca (Delfino) Pesce è morta, all’età di 97 anni. Franca era nata a New York il 27 febbraio 1923, figlia di Ottone Pesce (fratello di Piero Delfino Pesce), musicista, compositore, direttore d’orchestra e di Carolina Palmieri, in arte Lina Palmieri, soprano leggero. Ottone e Lina si erano conosciuti sul palcoscenico di un teatro lirico messicano, durante una tournée, e si erano sposati in New York il 3 luglio 1922: testimoni di nozze Fiorello La Guardia futuro sindaco di New York per tre mandati consecutivi dal 1933 e Arturo Tomaiuoli, noto poeta e librettista. La sorella di Franca, Maria, non più fra noi da tempo, è stata scrittrice nonché insegnante nei Licei Classici romani; aveva sposato il poeta, attore e docente di tecniche sceniche Argo Suglia, di origini molesi. Tornata stabilmente in Italia Franca visse quasi un anno in Milano per le attività musicali del padre Ottone e durante questo soggiorno lo scultore Bruno Calvani, amico di Ottone, scolpì una sua testina oggi dispersa. Si stabilì quindi definitivamente a Roma con la sua famiglia, in una casa del Quartiere “Africano” sita in via Benadir n. 8 e si iscrisse il 21 dicembre 1936 alla “Terza Ginnasiale” presso il Regio Ginnasio parificato S. Angela Merìci (istituito nel 1930 nel Quartiere Nomentano), che faceva riferimento alla “pedagogista” ante litteram e fondatrice delle Orsoline, poi santa, Angela Merìci. Presso l’Istituto delle Orsoline frequentò anche il nuovo Liceo Classico maturandosi il 5 giugno 1941. Negli anni trascorsi nell’Istituto S. Angela Merìci fece amicizia con Giulietta Masina (nata nel 1921), anch’essa alunna presso le Orsoline e presumibilmente conobbe il giovane Federico Fellini che allora a Giulietta faceva la corte. Franca perse la cittadinanza statunitense perché alla data dell’entrata in guerra dell’Italia non fece ritorno negli USA, pur avendo il Console statunitense a Napoli offertole la possibilità di rientrarvi, insieme alla sorella Maria, a bordo di un sommergibile. Sul finire del 1944 sposò Giuseppe Morgese (nato nel 1916, morto nel 2005), successivamente capo degli Uffici Legale e Personale dell’Ente di Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise ed ebbe con lui due figli: Waldemaro (nato nel 1945) e Maria Carla (nata nel 1949). Nell’intervallo fra la nascita dei due figli Franca si laureò il 15 luglio 1947 nell’Università di Roma “La Sapienza” in Lettere, discutendo con l’illustre Maestro Luigi Ronga una tesi in Storia della musica sul seguente argomento: “Albori dell’opera buffa in Roma: dal ‘Sant’Alessio’ all’opera ‘Dal male il bene’ – 1634-1653. Un librettista e quattro compositori”. In questa tesi, fra l’altro, si può leggere: “Non si può dimenticare che lo sviluppo rigoglioso del Teatro Barberini comincia nel ’37, da quando, cioè, il melodramma religioso si permise venisse recitato nei conventi e quindi non c’era più nemmeno la limitazione di pretesto del soggetto religioso”. Il gioco della sorte ha voluto – lo noto per inciso – che il figlio Waldemaro, dopo essersi iscritto a “La Sapienza” nel 1966, abbia frequentato e superato due esami in Storia della musica proprio con l’ormai anziano Luigi Ronga! Madre poco meno che trentenne Franca volle recarsi con i due figli bambinelli nel rinomato studio fotografico Venturini (in via Veneto a Roma), il cui “direttore artistico” era Alberto Parsi, per lo scatto di alcuni ritratti che fermassero nel tempo la sua bellezza giovanile e quella fanciullesca dei due figli: anche di questo dobbiamo esserle grati. Trasferitasi a Mola di Bari con il marito, Franca si iscrisse al quarto anno (d’ufficio) per il conseguimento della Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari con numero di matricola 571. Successivamente ha intrapreso una carriera di educatrice, insegnando per decine e decine di anni materie letterarie ma anche lingua francese e inglese. Ha impartito anche molte lezioni private nel corso di numerosi anni (persino gratuitamente per studenti senza possibilità economiche ma meritevoli). Fin nella sua veneranda età era spesso riconosciuta per le strade di Mola di Bari e lodata da suoi vecchi alunni, ormai non più giovani. Ha lasciato ai due figli un biglietto autografo su cui ha espresso (e i figli hanno eseguito) la volontà che sulla sua lastra tombale fosse scritto: “Persona speciale”. Non perché lei si credesse tale, ma semplicemente perché ricordava lucidamente anche in età anziana le tante volte in cui suo papà Ottone, quando era bimbetta, le diceva affettuosamente “sei una persona speciale”. Quindi con questa frase in realtà Franca ha voluto ricordare, nell’ora estrema, la figura del padre.

 

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KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS

KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS - Casina Morgese

Scarica gratuitamente il PDF integrale del libro di Waldemaro Morgese KATASTROFÉ - L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS (Edizioni dal Sud, Bari, 2020, € 8): clicca sull'icona PDF in basso a sinistra.

Se invece vuoi nella tua biblioteca l'elegante libretto in cartaceo bisogna rivolgersi alle Edizioni dal Sud (info@dalsud.it) oppure acquistarlo su AMAZON.

Buona lettura!

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W. MORGESE - "GRAN BERLINO. GERMANIA DOLCE E AMARA": recensioni

W. MORGESE - "GRAN BERLINO. GERMANIA DOLCE E AMARA": recensioni - Casina Morgese

 

METTI UNA SERA A BERLINO. TRA IL DOLCE E L’AMARO RESTA SEMPRE LA BELLEZZA

Il pugliese Waldemaro Morgese e il viaggio.

Di Domenico Mugnolo, germanista

[recensione apparsa su La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 dicembre 2019].

 

Il volume di Waldemaro Morgese dal titolo Gran Berlino. Germania dolce e amara, Radici future, Bari 2019 (con deliziosi disegni originali di PierMarino Zippitelli) si presenta come una guida alla capitale tedesca e costituisce il resoconto di un viaggio di una decina di giorni intrapreso nel 2018 dall’autore, insieme alla sua compagna, la poetessa e docente di tedesco Angela Redavid.

In verità, il lettore si trova difronte (non inganni la scrittura piacevole e scorrevole) a qualcosa di ben più ricco e complesso di un vademecum per chi si rechi a visitare questa città che ha segnato di sé la storia di buona parte dell’Otto e del Novecento. Gran Berlino è il frutto di un’attenzione alla cultura di lingua tedesca che risale fin dagli anni di gioventù dell’autore. E dietro l’attenzione di Morgese si indovina non soltanto l’ammirazione per tanti aspetti della cultura tedesca, ma anche una certa simpatia. Ciò non significa, tuttavia, che egli dimentichi o sottovaluti gli aspetti tragici legati al nome della Germania. E però sa che «l’elaborazione del lutto è stata perseguita dal popolo tedesco con una fermezza e tenacia che pochi popoli hanno dimostrato nel corso della storia». Insomma, affrontando il viaggio, il corredo ideale e mentale di Waldemaro Morgese non poteva essere certo racchiuso in una valigetta: vi trovano posto letture numerose e importanti, riflessioni approfondite e acute. Né l’autore rinuncia a brevi incisi che ci restituiscono aspetti della sua stessa personalità: cosa cui non siamo più abituati a sentirci proporre da una guida, ma che ha una sua lunga e nobile tradizione, risalente all’epoca in cui chi si metteva in viaggio si considerava un viaggiatore, non un turista.

Il turista dei nostri giorni è abituato a girare per le città, inseguendo frettolosamente le mete suggerite da guide cartacee o virtuali, selezionate in base alla durata del soggiorno: un giorno, un week end, una settimana. In città si percorrono le vie che conducono ai monumenti segnalati come significativi mentre le altre, nelle quali si svolge la normale vita cittadina, vengono disertate. Non è per questo tipo di turista che scrive Waldemaro Morgese, che, certo, non ignora snobisticamente i monumenti cruciali della città, ma accanto ad essi cerca quegli angoli e quei luoghi che solo la curiosità (e le letture pregresse) suggeriscono di non ignorare, ma anzi a volta di privilegiare: l’obiettivo dei due viaggiatori non è depennare una dopo l’altra da una ideale lista le mete irrinunciabili: sanno bene che in dieci giorni sarebbe illusorio farlo. A loro preme cercare i luoghi che per l’uno o l’altro motivo richiamano memorie, letture, immagini. Così è per la leggendaria Volksbühne, il teatro che fu di Max Reinhardt, così è per il mitico cinema Babylon, così per il museo dedicato alla Blindenwerkstatt di Otto Weidt, un imprenditore che in piena Berlino dava lavoro a operai ebrei ciechi altrimenti destinati alla deportazione e allo sterminio. 

Si concedono però anche soste in locali da ballo, ci portano a cena con loro a gustare una pizza o a goderci uno spettacolo teatrale scoperto un po’ per caso.

Tempo tolto alla visita della città? Niente di più sbagliato. Capire come ci si diverte altrove, come si cena, come si assiste a uno spettacolo è quanto di meglio ci sia per capire la città che si visita. La guida è frutto di scelte: meglio parlare con agio di quello si può dire nello spazio limitato a disposizione, anziché accennare a malapena a questioni che meriterebbero una trattazione approfondita. E tuttavia i temi di cui non parla, Morgese li ricorda: dal sistema bibliotecario (significativo oltre ogni dire che ogni museo abbia la sua attrezzata biblioteca per chi non voglia limitarsi a una visita anche attenta), al movimento del Bauhaus. Ed è come se ricordandoli lanciasse un suggerimento al lettore: queste cose andrebbero conosciute. Non a caso ci fornisce sempre opportuni suggerimenti bibliografici. Un volumetto che va messo in valigia, quando si parte per Berlino.

 

 

‘GRAN BERLINO’ IL BREVIARIO DI VIAGGIO SENTIMENTALE DI WALDEMARO MORGESE

‘Gran Berlino’ Germania dolce e amara: il breviario sentimentale di Waldemaro Morgese, edito da Radici Future Produzioni, con postfazione di Domenico Mugnolo.

 Di Antonio V. Gelormini

[recensione apparsa su Affaritaliani.it di martedì 19 novembre 2019].

 

A definire così ‘Gran Berlino’, il prezioso volumetto edito da Radici Future Produzioni 2019, è lo stesso autore, Waldemaro Morgese, che in un certo modo ne delinea anche i caratteri dell’originale “compagno/manuale di viaggio”, per noi, allorquando descrive il ‘suo’ passe-partout introspettivo per l’affascinante capitale tedesca: un libretto di Abraham Yehoshua ‘Antisemitismo e sionismo. Una discussione’, Edizioni Einaudi 2004.

“Gran Berlino” più che una guida è davvero un breviario da leggere, rileggere e consultare: per tener vivi curiosità e interesse nella scoperta di questo suggestivo forziere di cultura, innovazione, storia e modernità, che fanno di questa città – cantata e decantata da artisti d’ogni sorta – un vero e proprio santuario laico ed europeo della bellezza.

Come Damiel e Cassiel, i due angeli de ‘Il cielo sopra Berlino’ di Wim Wenders, Waldemaro Morgese (che col regista tedesco condivide specularmente passione cinefila e caratteri delle iniziali) insieme alla sua compagna di viaggio, Angela Redavid, indicano, suggeriscono e spesso svelano al lettore/visitatore – con molta discrezione – una Berlino alquanto nascosta o in genere ‘tralasciata’ dalle tradizionali guide turistiche.

Un percorso binario, che mette in evidenza il destino ‘duplice’ della città che più di tutte riassume e riflette il carattere identitario della stessa Germania: l’ellisse con due fuochi al centro dell’Europa. Gioia e dolore, croce e delizia del Vecchio Continente, in cui la sua persistente dicotomia diventa esaltazione e orgoglioso slancio nazionalista: nel senso più nobile del termine.

Due Germanie, due Berlino, due facce dello stesso popolo. Amaro e dolce, mostruosità e bellezza, amore e crudeltà – apprezzabilmente descritti in due pagine anch’esse binarie (11 e 22), presumo inconsapevolmente ma significativamente appropriate – che raccontano e descrivono la cohabitation della grande musica, della grande filosofia, della grande letteratura e della grande arte, con le mostruosità aberranti e deformi dell’orrore più devastante.

Con le parole di George Steiner, l’autore ricorda come: “Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke a sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”.

In altre parole, la narrazione senza tempo e senza canoni dell’espressionismo germanico, nell’indomabile fermento volitivo: riassumibile nella fenice anch’essa bicefala – che accorpa la tradizione greca e quella egizia – capace di risorgere, ogni volta più attraente, dalle proprie ceneri o dalle profondità fluviali o marine più infime.

Nei suggerimenti discreti di Morgese, però, c’è anche la descrizione di una potenza economico-industriale, in cui l’esaltazione del Welfare è da sempre la spina dorsale di un Paese caparbio, che si ostina a trasformare la ricchezza ‘diffusa’ in benessere per ciascun cittadino.

Una serie di itinerari, di passeggiate e di esperienze in grado di far cogliere, fino in fondo, il carattere travolgente di una “Berlino, città in divenire”, che coltivando l’esercizio della memoria, prova a farne un antidoto efficace contro i fantasmi del passato e il rifiorire di mal-sopite spinte totalitarie.

Fermenti virtuosi che prendono forma nel mosaico museale senza pari, che Berlino può vantare e coordinare in una rete culturale cittadina, segnata da innovazione e proiezione tecnologica avanzata. Rinforzato da un sistema bibliotecario ricchissimo, altamente fruibile, sostenibile e all’avanguardia, nonché da un patrimonio e da una cultura cinematografici di raffinata e diffusa competenza.

Il tutto in una sorta di ‘Esprit de géométrie’ della Germania, che esplode nella proposta architettonica variegata all’insegna del ‘Futuro nelle radici’ di cui Waldemaro Morgese si fa cantore raro e autoctono, dato che come ricorda Domenico Mugnolo, nella sua postfazione, “il numero di resoconti di viaggiatori italiani in Germania è numericamente irrilevante, rispetto a quello di viaggiatori tedeschi in Italia”.

 

 

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29-8-2020: "GRAN BERLINO" A BISCEGLIE

29-8-2020: "GRAN BERLINO" A BISCEGLIE - Casina Morgese

Sabato 29 agosto 2020, a Bisceglie, nell'ambito dell'undicesima edizione della Rassegna "Libri nel Borgo Antico", presso il Porto in via Nazario Sauro è stato presentato il volume di Waldemaro Morgese "Gran Berlino. Germania dolce e amara" (Radici Future Produzioni, Bari 2019). Il testo è stato presentato da Antonio Gelormini, che ha chiesto all'Autore di sintetizzare le ragioni per cui questo libro è stato definito, triplicemente, una guida turistica sui generis, un diario di viaggio e un breviario sentimentale. L'autore ha risposto dilungandosi successivamente anche su una interpretazione della Nazione tedesca e sul perché - a sua opinione - la Germania è oggi egemone nell'UE.

Nell'immagine: a sinistra A. Gelormini, a destra W. Morgese mentre parla.

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OTTONE PESCE E CASA RICORDI

OTTONE PESCE E CASA RICORDI - Casina Morgese

La mia cara amica Angela Annese, docente nel Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari e pianista di fama (allieva di Aldo Ciccolini e Dario De Rosa), ci ha donato un documento molto interessante che, oltretutto, arricchisce la nostra storia locale.

Angela Annese è anche una studiosa, quindi adusa a consultare archivi. Si è occupata di recente di Clara Wieck-Schumann, ritenuta da alcuni la concertista più famosa d’Europa e in particolare dei ricordi su di lei dei suoi allievi.

L’Annese nel corso delle sue ricerche nell’archivio storico di Casa Ricordi a Milano ha trovato una lettera autografa di Ottone Pesce, compositore e direttore d’orchestra nato a Mola di Bari nel 1889 e deceduto a Roma nel 1967, indirizzata a Casa Ricordi e più precisamente al comm. Renzo Valcarenghi in data 18 novembre 1945, con il corredo della risposta datata 23 novembre: quest’ultima è un referto dattiloscritto in copia da carta carbone, senza firma ma si presume sottoscritta nell’originale da uno dei tre “triumviri” che gestirono la Casa in quegli anni, dopo le dimissioni del Valcarenghi (1944): e cioè Camillo Ricordi (figlio di Manolo), Eugenio Clausetti e Alfredo Colombo.

La lettera di Ottone Pesce è interessante per quanto lascia intuire sulla gestione delle “cose” musicali durante il ventennio fascista. C’è da aggiungere solo che al nostro Maestro non rispose il Valcarenghi, nel 1944 come già accennato dimessosi dalla direzione della Casa perché traumatizzato a causa degli ingenti danni di guerra da cui le raccolte musicali erano state colpite, bensì direttamente la Casa, cui la lettera era stata recapitata per competenza dal Valcarenghi. Questo particolare è da sottolineare perché è noto come i rapporti fra Casa Ricordi e il fascismo fossero stati in certo senso “amichevoli”, dato che il Valcarenghi aveva rappresentato le case editrici nel Consiglio della Corporazione dello Spettacolo e Casa Ricordi aveva sostanzialmente annuito alle imposizioni della censura fascista e all’allontanamento degli Autori ebrei. Pur se questa amicalità – bisogna precisarlo - non fu totale: ad esempio Casa Ricordi difese Arturo Toscanini dopo il noto episodio dell’aggressione subita da parte di un gruppo di squadristi dinanzi al Teatro Comunale di Bologna nel maggio 1931.

In ogni caso colpisce il modo molto drastico con cui Ottone Pesce si esprime nella lettera (la pubblichiamo nella trascrizione dal corsivo autografo fatta dalla Annese, anch’essa depositata nell’archivio storico): «Il pubblico ha dimostrato chiaramente che tutta la produzione del ventennio fascista è stato un immenso bluff, perciò credo spetti alla Casa Ricordi riprendere le gloriose tradizioni di cui il grande Giulio andava giustamente orgoglioso».

Dalla risposta di Casa Ricordi, inviata ad Ottone Pesce a stretto giro, il lettore si renderà conto tuttavia che la speranza di Ottone di vedersi pubblicare le due opere, aimè, non fu coronata da successo. In parte per ragioni obiettive (e da questo punto di vista la lettera di risposta è molto importante per comprendere la grave situazione in cui si trovò la Nazione subito dopo la fine del conflitto mondiale), in parte forse anche per una qualche titubante mancanza di coraggio della direzione della Casa nel promuovere novità artistiche pur nella situazione difficile in cui versava in quel momento il teatro lirico italiano (si pensi, invece, al coraggio presto manifestato dal Piccolo Teatro di Milano con Paolo Grassi e Giorgio Strehler…).

Le due opere liriche di cui si discetta nelle lettere sono La sposa di Efeso (titolo originale La Cleanta) e La sposa del Sole. La prima una commedia lirica in un atto, la seconda una tragedia lirica in un atto e due quadri. Entrambe su testo di Antonio Lega, librettista, sceneggiatore cinematografico, “regista” e direttore di scena nato nel 1884 a Foiano in provincia di Arezzo e assai noto ai suoi tempi (lavorò molto al Teatro Costanzi di Roma e fu “regista” fisso al Teatro San Carlo di Napoli negli anni 1929-33 e 1936-37; sceneggiò i film Le rouge et le noir nel 1920 e nel 1933 La signorina dell’autobus). In particolare La sposa del Sole si svolge in Egitto, ad Heliopolis, al tempo della XIX dinastia faraonica (1313-1292 a.C.): a quel tempo il soggetto era un “topos” rientrante nell’esotismo, e infatti nel 1921 Bemporad pubblicò un romanzo di avventure dal medesimo titolo, opera di Luigi Motta (un emulo di Salgari), ma con teatro di svolgimento in questo caso non l’Egitto ma il Perù di Atahualpa e di Pizzarro.

La produzione musicale di Ottone Pesce è rilevante e comprende anche un balletto rappresentato al National Theatre di Broadway nel 1924 (Arcadia), numerose pagine pianistiche e romanze per canto e pianoforte.[1] Fu un allievo di Giacomo Setaccioli, compositore, docente a S. Cecilia e critico musicale. Fratello di Piero Delfino Pesce, sposò durante una tournée americana la giovane Carolina (Lina) Palmieri, soprano leggero, figlia di immigrati italiani, definita la “Amelita Galli Curci americana” per le sue doti canore. Quando tornò definitivamente insieme ad Ottone in Italia, la Palmieri partecipò ad una audizione per essere inserita nel coro dell’orchestra di Cinico Angelini: il famoso Maestro le disse che sarebbe stato un delitto accettarla, in quanto per le sue strabilianti capacità vocali meritava di continuare la carriera solista. Ebbero due figlie: Franca e Maria (quest’ultima andata sposa al poeta molese Argo Suglia). Franca, in tenera gioventù amica in Roma presso il Collegio delle Orsoline di Giulietta Masina (e di Federico Fellini), ora custodisce gli spartiti delle due opere. Durante un lungo soggiorno a Milano, Ottone Pesce entrò in sintonia profonda con lo scultore Bruno Calvani, nativo di Mola anch’egli: amicizia suggellata da una testina in bronzo, scolpita dall’artista, che raffigurava la piccola e riccioluta Franca. Dopo uno dei vari ritorni in Italia dagli USA (ove svolse una brillante carriera) a Ottone Pesce non fu più rinnovato il passaporto per la sua fede antifascista (era anche un fervente sostenitore degli Stati Uniti d’Europa), talché dovette restare in via definitiva a Roma.

I fili che legano Ottone Pesce alla città di Mola e alle sue personalità fra le più insigni sono dunque intensi. Oltretutto, quando l’Amministrazione della nuova Mola repubblicana volle celebrare nel Teatro Comunale, il 22 agosto 1948, il cinquantesimo della morte di Niccolò Van Westerhout, chiamò da Roma Ottone Pesce per dirigere l’orchestra d’archi: una performance che fu diffusa anche all’esterno tramite altoparlanti puntati verso la gremita piazza cittadina “XX settembre”. Un gesto importante e simbolico, che di certo intendeva sottolineare l’esistenza di una scuola musicale in Mola di Bari che travalicava i decenni unendo insieme le sue due personalità più importanti.

P. S. In altra sede, ho proposto agli amministratori di Mola di trasformare la Biblioteca Comunale in Fondazione Culturale, al fine di affidare ad un organismo specializzato – oltre la gestione bibliotecaria – anche la cura e valorizzazione delle tante espressioni del “genio” artistico molese nei secoli. Forse i cittadini di Mola potrebbero così finalmente conoscere compiutamente le loro autentiche glorie ed anche, chissà, le note di Ottone Pesce, ad esempio della Sposa del Sole: “una solenne e austera messa in scena dalle forti tinte drammatiche, con ascendenze quasi pizzettiane nella presenza di cori e grandi scene di massa così come nell’uso della modalità e nel dispiego di imponenti forze orchestrali” (Angela Annese). Finora sono inascoltato, ma non dispero!

Ecco i testi delle due lettere:

Roma, 18 Nov. 45

Egregio Comm. nel ’39 venni a Milano e presentai a Casa Ricordi due mie opere “Cleanta” commedia lirica in 1 atto e “Sposa del Sole” tragedia lirica in 2 atti, ambedue su libretto di Antonio Lega. Fanno spettacolo completo. Ella, che cortesemente mi ricevette, mi disse queste testuali parole: “Egregio maestro, se Ella avesse scritto musica degna di Verdi o Puccini, noi non possiamo far nulla. Il regime c’impone di pubblicare quelle opere che vuole imporre al povero pubblico pagante e include quelle soltanto nei cartelloni”. Difatti, pur essendo stata la mia “Cleanta” scelta dalla Commissione della Società degli Autori e segnalata al Ministero della Cultura popolare per la rappresentazione, quando gli impresari includevano la mia opera nei cartelloni, me la vedevo esclusa e cancellata; non essendo stato io mai iscritto a nessun partito e quindi, non avendo la tessera, sempre boicottato come direttore e compositore da quando ebbi la pessima idea di far ritorno dall’America, ove ero stato ben valorizzato nei due campi artistici. Ora Le domando, egregio Commendatore: potrebbe la Casa Ricordi, interessarsi delle mie due opere nuove? Io verrei a Milano, e, o farei sentire personalmente l’opera al piano oppure attendersi finché la Casa desse il suo responso. Al Concorso alla Scala, la mia opera fu dalla Commissione anche scelta in una prima selezione con altre due, ma poi tutto andò a vuoto. Le potrò documentare questo e mostrarLe insomma tutta la via crucis dei miei due lavori. Il pubblico ha dimostrato chiaramente che tutta la produzione del ventennio fascista è stata un immenso bluff, perciò credo spetti alla Casa Ricordi riprendere le gloriose tradizioni di cui il grande Giulio andava giustamente orgoglioso. Fui il vincitore su 84 concorrenti e per referendum del 1° premio nel Concorso indetto dalla Università Popolare di Milano per la “Canzone di Maggio” che è edita da Sonzogno. In attesa di un Suo gentile riscontro, con immensa stima La saluto distintamente.

M° Ottone Pesce

Via Benadir 8

Roma

 

23 Novembre 1945

Preg. Sig. M° Ottone Pesce

Via Benadir 8

Roma

Il Comm. Valcarenghi – che da oltre un anno si è ritirato dagli affari e quindi non fa più parte della nostra ditta – ci trasmette la la risposta la stim. Sua lettera 18 corr.

Mentre la ringraziamo per l’offerta cortese che colla stessa Ella ci fa di due sue opere liriche, Cleanta in un atto e Sposa del Sole in due atti, entrambe del librettista Lega, ci spiace doverLe comunicare che non ci è in nessuna maniera possibile di aderire alla richiesta oggetto della suddetta Sua lettera. La nostra Casa, che ha subito danni ingentissimi in seguito ai bombardamenti aerei nel 1943, dedica al presente tutte le sue energie al ripristino delle sue edizioni e del suo archivio teatrale andati prede del fuoco. In simili condizioni è assolutamente escluso che si possa accogliere nuovi lavori teatrali, quali che ne siano i meriti artistici. Si aggiunga poi che attualmente in Italia sono efficienti sì e no tre o quattro teatri lirici i quali, ben s’intende, si guardano bene dal mettere in scena lavori nuovi o nuovissimi…

Dolenti di non poterLe dare risposta migliore, con distinta stima La salutiamo.



[1] Su Ottone Pesce è possibile consultare: Bartolo Viviana, Monachino Antonella, Monachino Giuliana: Il Teatro Musicale nella Terra di Mola di Bari, Edizioni dal Sud, Bari 2007; Angela Annese, voce “Ottone Pesce”, in Operisti di Puglia. Dall’Ottocento a giorni nostri, a cura di Lorenzo Mattei, Edizioni dal Sud, Bari 2010.

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3-8-2020: A CECILIA MANGINI LE CHIAVI DI MOLA

3-8-2020: A CECILIA MANGINI LE CHIAVI DI MOLA - Casina Morgese

CECILIA MANGINI, NELLE RADICI DELLA NOSTRA STORIA È IL SUO LEGAME CON MOLA

Di Waldemaro Morgese

[pubblicato su “Mola Libera” del 6 agosto 2020].

Lunedì  3 agosto 2020 alle 20.00, nel Chiostro di Santa Chiara in Mola di Bari, sono state consegnate a Cecilia Mangini le chiavi della città di Mola (un’opera ceramica preziosa di Maria Elena Savini): tributo deliberato dall’intero Consiglio Comunale rappresentato in quest’occasione dal Sindaco. Il folto pubblico presente è stato allietato all’inizio dal meraviglioso gruppo corale queer “Ricchitoni”, schierato sul fronte LGBTI e alla fine dalla proiezione integrale di “In viaggio con Cecilia”, un documentario con la regia di Mariangela Barbanente e Cecilia Mangini prodotto da GA&A Productions nel 2012. La serata è stata organizzata dall’Associazione “Musicando” diretta da Annamaria Tanzi e da “Palazzo Pesce”, struttura animata da Margherita Rotondi.

 

L’immagine che si è presentata agli intervenuti è stata molto bella: Cecilia Mangini sul palco circondata da un “parterre” di autentiche speranze “cinefile”, tutte di Mola di Bari come lei e che con lei hanno interloquito: Mariangela Barbanente (regista e sceneggiatrice), Gianluca Sciannameo (film-maker, critico e studioso di cinema), Annalisa Mirizio (docente di letteratura comparata e di cinema nell’Università di Barcellona).

Purtroppo la città di Mola non ausilia granché la cultura (a meno che non la si confonda con l’eventistica…); prova ne è l’assenza totale di una valida presenza della filiera MAB (Musei-Archivi-Biblioteche), architrave della Cultura con la C maiuscola. Da tempo ho proposto agli Amministratori di trasformare la Biblioteca Comunale (che vivacchia) in una Fondazione culturale che possa implementare la filiera MAB, ma finora sono una Cassandra clamans in deserto. Si immagini il lettore cosa potrebbe – a mo’ di esempio – sortire di beneficio per i cittadini se, in una struttura museale molese, fossero incaricati appunto Mariangela Barbanente, Gianluca Sciannameo e Annalisa Mirizio di approntare la sezione dedicata a Cecilia Mangini? E se ciò si replicasse per le tante vite “illustri” della città? Chissà, forse Mola finirà per arrivarci quando nasceranno politici meno distratti e, se accadrà, diremo che non è mai troppo tardi, per farci coraggio!

Ma ora parliamo di Cecilia. Anche una parte della mia vita è intrecciata con lei, attraverso molteplici fili.

In una memoria che probabilmente sarà pubblicata a breve, lei ha scritto fra l’altro: «Lentamente sono riuscita a risalire ai tempi della Teca del Mediterraneo, quando la dirigeva Waldemaro Morgese e Maria Abenante ne era la vicedirettrice: di anno in anno la Teca organizzava una tavola rotonda che riuniva storici, giornalisti, critici, registi, scrittori e la più varia umanità. La Teca del Mediterraneo produceva anche documentari dedicati agli autori di origine pugliese e arrivò un anno, il 2010, che Waldemaro affidò quello su di me a due documentaristi che io non conoscevo, che non mi conoscevano e tutti insieme in coro rifiutammo quella scelta ma Waldemaro ostinatamente dichiarò che proprio perché non ci conoscevamo la sua era una scelta sacrosanta. Era nel giusto e lo dimostra quel documentario, “Non c’era nessuna signora a quel tavolo” di Davide Barletti e Lorenzo Conte, girato con sovrimpressioni in anticipo sui tempi, con un montaggio molto articolato e un bel crescendo musicale sul titolo “FINE”. In più c’è un booklet firmato Gianluca Sciannameo».

Al perché nel 2009 decisi di produrre un film-documentario (durata 66’) dedicato a Cecilia arrivo subito. Prima desidero rimarcare la parabola essenziale di Cecilia. Dopo una lunga attività a Firenze come organizzatrice nella Federazione Italiana Circoli del Cinema, cura la regia e la sceneggiatura di quattro intensi corti nel triennio 1958-1960: Ignoti alla città, Firenze di Pratolini, Stendalì (Suonano ancora), Maria e i giorni. Poi, con altri fra cui il marito Lino Del Fra e Lino Micciché, firma fino al 2004 innumerevoli altri documentari e dopo quell’anno (esattamente dopo Uomini e voci del congresso socialista di Livorno) entra “in sonno”. Dal “sonno” la tirano fuori anni dopo gli animatori del Cinema del Reale e la Presidenza della Repubblica, che la fregia della medaglia d’oro “per aver trasmesso alle generazioni future, attraverso la sua attività di cineasta documentarista, alcune delle più belle immagini dell’Italia degli anni ’50 e ‘60”. Il 2009 è l’anno in cui viene rivalutata la sua attività di fotografa: Claudio Domini, docente di Storia e tecnica della fotografia al DAMS di Gorizia, pubblica il volume L’impero dell’immagine. Cecilia Mangini fotografa 1952-1965, replicando un’operazione da lui già svolta su Luigi Di Gianni, tesa a investigare le relazioni fra inquadratura cinematografica e fotografia. Inoltre nel 2009 il “NododocFest” di Trieste valorizza la rassegna completa delle sue opere filmiche.

Nel Sud d’Italia la vera “ri-emersione” di Cecilia si chiama Non c’era nessuna signora a quel tavolo e segna come data il 2010: anno nel quale il film-documentario di Davide Barletti e Lorenzo Conte sulla vita di Cecilia viene distribuito e più di una volta subito trasmesso su RAI STORIA e in varie altre sedi in modo da farlo conoscere ad un vasto pubblico.

Perché nasce Non c’era nessuna signora a quel tavolo? È il fortunato spillover di un progetto di Teca del Mediterraneo, quello di valorizzare le identità della Puglia e dimostrare che l’identità – contrariamente a quanto sostenuto da una errata vulgata “progressista” – non è necessariamente un fattore di conservazione o immobilismo ma può essere un potente vettore di arricchimento culturale e di valorizzazione dinamica delle radici. Teca del Mediterraneo fu antesignana e successivamente anche le politiche culturali regionali compresero tutto ciò e si comportarono di conseguenza. Fatto sta che il 15 settembre 2010 nel padiglione 152bis della Fiera del Levante si svolse una importante manifestazione: “Verso una mappa delle icone culturali dell’identità pugliese: film/frammenti in progress”. Furono proiettati in anteprima assoluta alcuni fotogrammi dei due film-documentari in corso di completamento, i cui titoli diventeranno Non c’era nessuna signora a quel tavolo (su Cecilia, di Barletti e Conte) e Io e la mia sedia (un film sul cantastorie pugliese Enzo Del Re, regia di Angelo Amoroso D’Aragona). A fine anno i due film erano pronti e furono resi pubblici. Livio Costarella, nell’annunciare l’evento, intitolò il suo articolo Del Re suona la sua sedia e Cecilia ricorda (La Gazzetta del Mezzogiorno del 13 settembre 2010). Il progetto di Teca, si badi, era già in corso di implementazione con ricchezza di contenuti: operisti e musicisti, cineasti, il Cut/Bari, i futuristi pugliesi, il primo film muto pugliese Idillio infranto arricchito con una magnifica colonna musicale opera di Nico Girasole…

Dopo il 2010 la vita di Cecilia è stata un magnifico crescendo di popolarità, nazionale e internazionale; si sono anche vieppiù cementati i rapporti virtuosi con la Puglia e persino anche con la sua città nativa, Mola di Bari. La stessa decisione di Mariangela Barbanente di firmare con lei un film documentario in cui ripercorrere la “vita civile” di Cecilia degli anni “eroici” per compiere una sorta di bilancio su quanto successivamente accaduto nel Sud è la riprova più eloquente.

È da sottolineare che mentre il rapporto con la Puglia è stato vivificato essenzialmente dal Cinema del Reale e dall’Apulia Film Commission, quello con la città di Mola ha visto come protagonista soprattutto l’Associazione “Le Antiche Ville”, per la semplice ragione che Cecilia è nata nella contrada rurale molese di Brenca, nel Poggio delle Antiche Ville (a riprova dello spessore storico della ruralità molese) e in questa contrada da un certo momento in poi si è ritirata ogni anno, in estate, per trascorrere un ameno soggiorno con il marito Lino (deceduto nel luglio 1997), dimorando nella casina di campagna ereditata dal padre.

Ecco alcuni riferimenti che danno conto di questo legame della città nativa con Cecilia.

Il 14 dicembre 2002 su promozione dell’Associazione culturale “Realtà Nuove” e con il sostegno del Comune di Mola si svolse nel Centro Aperto Polivalente una retrospettiva intitolata Il cinema come strumento di indagine sociale: i documentari di Cecilia Mangini. Anton Giulio Mancino, nell’annunciare l’iniziativa, titolò il suo pezzo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del giorno prima Ho fatto ciak sulla realtà. E Gianluca Sciannameo, nel suo libro Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini (pubblicato da Teca presso Edizioni dal Sud in astuccio con Non c’era nessuna signora a quel tavolo) ricorda che prendendo la parola in questa retrospettiva Cecilia sottolineasse con amarezza come il documentario avesse perso via via visibilità e pubblico dopo la stagione vivace del dopoguerra.

Il 25 febbraio 2011 presso il Castello Angioino di Mola fu proiettato il film-documentario Non c’era nessuna signora a quel tavolo, con il saluto dell’Amministrazione Comunale e la presenza di Cecilia cui fu consegnata dall’Associazione “Le Antiche Ville” una targa. L’evento inaugurava la IX edizione della rassegna “Baricentro di cultura in collina”.

Sempre nel 2011, il 13 e 14 luglio, presso il Castello Angioino di Mola (replicata il 18 settembre presso Casina Morgese in Brenca), fu allestita dall’Associazione una mostra documentaria su “Cecilia Mangini maestra dell’immagine” (vi collaborò anche Maria Abenante): composta di 2 sezioni, la prima con l’esposizione di 6 fotografie scattate da Cecilia nelle campagne di Brenca; riprendono Maria Limitone, meglio conosciuta come “Maria di Capriati” per il suo legame morganatico con don Sebastiano Capriati (Maria è anche la protagonista di Maria e i giorni). La seconda sezione espose 9 cartoline postali spedite negli anni Venti allo zio paterno Angelo in 3 città: Arezzo, ove Angelo frequentava il Convitto Nazionale; Torino, ove frequentò l’Università e Roma ove frequentò il Centro Chimico Militare. Nonché altre 9 cartoline con vedute di Mola: ricevute tutte dallo zio paterno Angelo, che divenne un importante professore universitario di chimica, studioso di fama e Accademico dei Lincei.

Cecilia così scrisse all’Associazione “Le Antiche Ville” il 6 luglio 2011 in merito alle cartoline da esporre: «Da mio zio Angelo, fratello minore di mio padre, e anche da mio padre ho ereditato la fissa di conservare tutto, come se la vita potesse essere testimoniata da lettere, immagini, fotografie, cartoline – forse le più importanti di tutte: raccontano i luoghi, le città, i paesi, i nostri rapporti con i parenti, con gli amici. Figuratevi se non ho maniacalmente conservato quanto conservato da papà e da mio zio: vedete le foto di famiglia e altro che ho regalato al nostro ecomuseo. Le cartoline che si riferiscono alla Mola anni Venti e Trenta del secolo scorso e che sono state scelte per essere ingrandite come racconto di una comunità, hanno anche un retro, e questo retro parla in presa diretta dell’adolescenza e della giovinezza di mio zio. Sono stati soprattutto loro, mio papà e mio zio, a non farmi dimenticare il debito che mi lega a Brenca e a Mola». Così, credo, abbiamo scoperto una Cecilia non solo cineasta, non solo fotografa, ma anche collezionista affettuosa di cartoline!

Il 22 febbraio 2020, presso Casina Morgese in contrada Brenca, l’Associazione “Le Antiche Ville” ha promosso una serata musicale incentrata sulla proiezione di alcuni dei suoi documentari degli anni ’60 (Stendalì e Maria e i giorni), offrendo ai partecipanti anche una piccola mostra su Cecilia negli ambienti della Biblioteca “Il Poggio”.

Concludo. Cecilia è anche una (potenziale) scrittrice fascinosa. Per sincerarsene, il lettore scorra (è solo un esempio) la breve ma intensa sua prefazione intitolata “Omero persuasore occulto” in testa alla raccolta di 47 fotografie scattate da lei a Lipari nel 1952 (Lipari 1952. Viaggio nelle cave di pietra pomice, a cura di Claudio Domini e Mattia Felice Paino, Edizioni del Centro Studi Eoliano, Lipari 2015), della quale trascrivo qui solo l’incipit:

«Estate 1952: per fuggire dalla monotonia delle spiagge nascoste da quattro file di ombrelloni, Omero è il mio persuasore occulto: tutte le Eolie sono il regno degli dei del vento, però Lipari, identificata come l’isola delle pietre galleggianti, è in testa ai desideri miei. Purtroppo non ha alberghi né locande. A Panarea, invece, il medico condotto ha organizzato una trattoria sul lastrico di casa e per dormire affitta le casette calcinate bianche, abbandonate dagli isolani partiti in massa per l’Australia – allora eravamo noi italiani a partire per l’ignoto».

 

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26-7-2020: MATERA, RICORDANDO LEONARDO SACCO

26-7-2020: MATERA, RICORDANDO LEONARDO SACCO - Casina Morgese

Waldemaro Morgese è intervenuto nel Borgo rurale “La Martella” (Matera) in presenza del Comitato di quartiere Quaroni, dell’Associazione culturale Adriano Olivetti e di altri cittadini del Borgo sulla figura del grande meridionalista Leonardo Sacco. Ha affermato che Sacco fu un grande meridionalista "non mainstream", sempre orgoglioso delle proprie opinioni e restìo a compromessi sulle questioni fondamentali. Al termine del suo intervento e di quello di altri (fra cui Mimmo Calbi, presidente dell'Associazione culturale "Leonardo Sacco") si è svolto lo spettacolo teatrale conclusivo del Festival “Nessuno resti fuori”, itinerante nei luoghi abbandonati di Matera. Di fronte al teatro “Quaroni” mai aperto ufficialmente, alla Biblioteca “Olivetti” (senza i libri di Sacco per gli interni mai risanati) e all’arena cinematografica in deperimento, tutti hanno potuto notare quanto l'occasione di Matera capitale europea della cultura sia stata sciupata, perché su tutto ciò si è glissato. 

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I "QUADERNI DEL CUT/BARI"

I "QUADERNI DEL CUT/BARI" - Casina Morgese

«QUADERNI DEL CUT». IL TEATRO DA BARI FECE CULTURA IN ITALIA

Il periodico del Centro universitario citato anche da Italo Moscati sulla prestigiosa «Sipario».

Waldemaro Morgese

[pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 14 luglio 2020, p. XVIII].

L’annata 1968 della rivista Sipario (nata nel 1946 e fin dal 1947 edita da Valentino Bompiani) si apre con America Hurrah di Jean-Claude van Itallie (un belga cresciuto dall’età di 4 anni a Great Neck – Long Island), inscenato dall’Open Theater di Joe Chaikin e si chiude sempre con America Urrà: il teatro della rivolta. Sfilano oltre all’Open e al Living Theatre, il Cafe La Mama, il Performance Group, Caffe Cino, Daytop Theatre, Theatre Genesis, Black Theatre, Gut Theatre, Bread&Puppet Theatre, Teatro Campesino, San Francisco Mime Troupe, Firehouse Theater, Om Theatre Workshop. Insomma una fetta dell’off America all’insegna di: “Broadway addio” e della massima di Manny Farber «gli americani devono capire che in arte correr dietro a ciò che è scontato significa perdere la partita in partenza».

Era una plastica dimostrazione che il teatro non poteva restare ai margini del sommovimento sociale in atto nel Mondo occidentale. Il fascicolo di giugno della prestigiosa rivista ci segnala anche l’audience che si erano guadagnati i Quaderni del Cut/Bari, perché Italo Moscati, nell’informare i lettori che anche Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato un suo manifesto per il teatro sulla rivista Nuovi Argomenti diretta dal medesimo Pasolini con Alberto Carocci e Alberto Moravia, si chiedeva: «sarebbe interessante apprendere le reazioni dei redattori di Teatro/Festival e dei Quaderni del Cut/Bari sul manifesto pasoliniano, specie sul punto in cui si parla di un teatro per gli intellettuali avanzati della borghesia cioè di un teatro per pochi, dato che in queste 2 riviste, non prive di contenuti rilevanti, giovani universitari chiedono ripetutamente un teatro politico e di idee per molti».  

Proprio ad essere pignoli, curiosamente l’ultimo fascicolo del 1967 di Sipario aveva arato il terreno: infatti era stato dedicato interamente al teatro futurista italiano e proponeva ben evidente la riproduzione di un articolo di Antonio Gramsci del 5 gennaio 1921 in cui il futuro dirigente comunista dichiarava di approvare quanto stavano facendo i futuristi, cioè “distruggere” la civiltà attuale nel campo delle arti.

 I Quaderni del Cut/Bari nascono sostanzialmente nell’ottobre 1967 curati da Vito Attolini, si arricchiscono di 9 fascicoli e dal giugno 1973 sono retti da un comitato redazionale con Achille Mango, Franco Fanizza, Egidio Pani, Vito Attolini, Antonio Serravezza, Antonio (Waldemaro) Morgese, Franco Perrelli e Gianni Attolini. L’ultimo fascicolo è del giugno 1983: in tutto, dal 1967, ben 22 numeri che sono la testimonianza più importante del fatto che il Cut/Bari non fu soltanto una compagnia di teatro sperimentale ma anche una presenza culturale di grande livello, di certo non provinciale.

I Quaderni del Cut/Bari ci permettono dunque di comprendere che il meglio della giovane intellettualità pugliese (ma non solo) e comunque che la Puglia partecipò in pieno allo “spirito pubblico” prevalente in quella fase esaltante dell’impegno sociale e dell’innovazione che ormai definiamo “Sessantotto”. Fase che per di più vide, sullo scenario nazionale, il fiorire anche di altre riviste di teatro, cui i Quaderni del Cut/Bari si affiancarono degnamente: La scrittura scenica (curata da Giuseppe Bartolucci), Biblioteca Teatrale (da Ferruccio Marotti e Cesare Molinari), Teatro (da Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini). Nonché la scelta da parte di riviste prestigiose di editare numeri monografici sul teatro: penso a Il Verri diretta da Luciano Anceschi, Ulisse da Maria Luisa Astaldi e Il Ponte da Enzo Enriques Agnoletti.

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