Casina Morgese Waldemaro Morgese ti dà il benvenuto!
Home » ARCHIVIO

ARCHIVIO

18-12-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE ALL'ARCHEO CLUB DI BARI

18-12-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE ALL'ARCHEO CLUB DI BARI - Casina Morgese

Sabato 18 dicembre 2021, alle ore 18, presso la sede barese dell'Archeo Club si è svolta una presentazione della raccolta di racconti di Waldemaro Morgese "Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo" (Giazira scritture editore, 2021). Il libro è stato presentato dalla scrittrice Carmen Mari, mentre l'attrice Paola Martelli ha letto alcuni brani tratti dai racconti Heroes, Meticciamento, Valli verdi e cascate. Mari ha evidenziato la validità della scrittura e ha lumeggiato il "mondo" variegato e intenso che si evince nei 25 racconti, con protagonisti sia donne che uomini e che comunque rimanda molto al "mondo" dell'autore. L'Autore, presente, ha risposto ad alcune domande formulate dal numeroso e attento pubblico presente.

commenti (1)

21-10-2021, BARI: GIORNATA IN ONORE DI FERDINANDO CANALETTI

21-10-2021, BARI: GIORNATA IN ONORE DI FERDINANDO CANALETTI - Casina Morgese

Il 21 ottobre 2021, presso la sala conferenze della Ragioneria territoriale dello stato di Bari/BAT, si è svolta una giornata in onore di Ferdinando Canaletti, già ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche nell'Università degli studi di Bari "Aldo Moro".

Insieme agli interventi programmati di Elio Borgonovi, Antonio Nisio, Patrizia Romanazzi e Michele Petruzzellis, Waldemaro Morgese ha rievocato alcuni aspetti del magistero del prof. Canaletti. 

L'intervento di Waldemaro Morgese è in allegato.

commenti (3)

28-08-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE A BISCEGLIE

28-08-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE A BISCEGLIE - Casina Morgese

Sabato 28 agosto 2021, alle ore 20.00, la raccolta di racconti di Waldemaro Morgese "Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo" (Giazira scritture editore, 2021) è stata presentata nell'ambito dell'undicesimo Festival letterario "Libri nel borgo antico-conversazioni con gli autori nelle piazze del centro storico". Ha discusso del libro Marino Pagano, giornalista e scrittore, presente l'editore Cristiano Marti e l'Autore. Le letture sono state svolte dall'attrice Paola Martelli. 

commenti (0)

LA COMPAGNIA DEL MELOGRANO, ROMANZO DI PIERO FABRIS

LA COMPAGNIA DEL MELOGRANO, ROMANZO DI PIERO FABRIS - Casina Morgese

LA COMPAGNIA DEL MELOGRANO, ROMANZO DI PIERO FABRIS

di Waldemaro Morgese.

Il romanzo di Piero Fabris La Compagnia del Melograno (Radici Future Produzioni, Bari, 2021, pagg. 214, € 15.00) è un’opera che non esito a definire eccellente; anche ben risolta sul piano della “cifra” stilistica e dell’intreccio. Sull’intreccio (la “storia” narrata) avrei un solo dubbio e riguarda la scelta dell’Autore di “incapsulare” nella parte finale del libro un omaggio ad alcune mode contemporanee, in questo caso sulla scia del “Codice da Vinci” di Dan Brown e del suo protagonista principale Robert Langdon, esperto internazionale di simbologia e crittografia religiosa.

Ma a parte questo particolare, il romanzo potrei definirlo un florilegio di messaggi fascinosi ed anche coraggiosi, che di certo colpisce nel profondo il lettore purché sia una mente coraggiosa e ricettiva.

Sul romanzo aleggia in ogni pagina la figura di Hrand Nazariantz: il poeta simbolista armeno nato nel 1886 a Iskudar-Costantinopoli ed esule a Bari nella parte più feconda della sua vita artistica (dal 1913). Personalmente ho appreso dell’esistenza di Hrand esattamente nel dicembre 1987, quando Pasquale Sorrenti mi regalò il suo “Hrand Nazariantz uomo, poeta, patriota”, pubblicato con Levante Editori in occasione del venticinquesimo della morte del poeta.

Il romanzo è sapientemente costruito grazie ad una approfondita frequentazione da parte dell’Autore di una vasta messe di documenti e fonti sul poeta armeno e, soprattutto, sul milieu artistico-culturale che si venne a costituire attorno alla sua carismatica e sotto certi aspetti inquietante figura. Quindi potremmo definirlo anche un romanzo “storico”, di una tipologia che conosce interessanti esempi nel panorama letterario: citerei perfino il romanzo incompiuto di Pier Paolo Pasolini “Petrolio”, che al suo interno ha numerosi innesti documentali. E tuttavia non deve affatto credersi che l’opera di Fabris sia in qualche modo paludata: anzi, è uno splendido avvicendarsi di spunti di riflessione e di godimento estetico offerti al lettore attento.

Enumererò questi “fiori” (o petali del florilegio) ma prima intendo dichiarare una mia sensazione che ho avvertito fin dalle prime pagine, vale a dire un prepotente impulso a considerare un rimando filmico. Ebbene, La Compagnia del Melograno mi ha fatto pensare a “Midnight in Paris”, scritto e diretto da Woody Allen, e mi spiego. Il film di Allen catapulta il protagonista, l’aspirante scrittore Gil, quasi un secolo addietro, nella Ville Lumière degli anni Venti, ove incontrerà Scott Fitzgerald, Picasso, Buñuel, Hemingway, Stein. Pur senza il marchingegno del viaggio nel tempo anche Fabris ricostruisce magistralmente le atmosfere soprattutto della Bari intellettuale ed artistica del tempo di Hrand: richiamando in vita i suoi pittori, i suoi letterati, i suoi poeti e scrittori e i luoghi in cui si riunivano per discutere di arte, di poesia, di cosmogonia. Con maestria (e fascino) Fabris ricostruisce anche l’aura spiritualista, simbolista ed esoterica (oltre che avanguardistica) che percorse agli inizi del XX secolo il capoluogo pugliese, citando nomi topici come Rudolf Steiner (una cui importante opera fu tradotta dagli Editori Laterza) o Giuliano Kremmerz (al secolo Ciro Formisano, forte presenza neopitagorica a Bari), o anche i futuristi che animarono il movimento marinettiano in Puglia.

Ma quali sono questi “fiori”?

Il revival di personalità e luoghi mitici del capoluogo pugliese, cui ho accennato, non solo degli inizi del Novecento ma anche di alcune decine di anni fa, come ad esempio la Libreria Sorrenti, il Bar Sottano, il Circolo Canottieri Barion, il ristorante del Circolo Unione.

Gli omaggi alle bellezze di Troia e soprattutto alla “massa critica” culturale della Conversano di alcuni decenni fa, ricostruita in modo efficace per sottolineare che la vera cultura non è eventistica ma una lunga e paziente sinergia fra le capacità umane (anche quelle capacità giovanili che si riunivano nel giardino con l’albero di melograno).

Le splendide descrizioni delle atmosfere veneziane.

Un forte richiamo alla valore immaginifico della poesia, che parla senza mediazioni: “la poesia è distillato del cuore. Raffina l’animo”; “I poeti verranno, saranno come pellegrini dalle lingue di fuoco, saranno i figli di miraggi immensi fatti di segreti incanti”. La condivisione di una idea di poesia “che non inciampa nell’ipocrisia di intellettuali prostituiti alla notorietà, ma poeti visionari, che si sono immersi nel flusso cosmico della bellezza autentica”.

La valorizzazione di musei e biblioteche (imperdibile il battibecco con il custode demotivato di un museo periferico!).

Il valore medicamentoso del ricordo: Santino, padre di Sophie, “inciampa nei ricordi”, oppure è “inarcato sulla pertica della memoria”.

Il fastidio per tutto ciò che sia rozza esaltazione dell’effimero, del vacuo: “si ritrovarono nella Bari del proprio tempo, che si consuma in eventi spettacolari senza ali né radici, tra il brusio di gente sull’uscio dei negozietti e lo scalpitio dei passi sui lastricati, tra le corti e i vicoli”; ovvero la condanna dell’involuzione dei futuristi “belli ingegni naufraghi nei bassi fondi della popolarità”.

L’idea che la bellezza è fatica e non è per tutti: “i semplici non devono essere confusi con i banali, perciò l’isolamento e la riservatezza erano un obbligo per chi è conscio del miele della propria arte”; “non si prepara un letto di rose per gli asini”; i veri artisti “son persone vicine al popolo e distanti dalla gente”.

Il senso acuto della caducità e dello svanire di tutto: “Dei sognatori di un’alba di bellezza, gli animatori della cultura raffinata, i protagonisti di un’epoca di grandi progetti sembra non sia rimasto nulla o meglio, sia rimasto ben poco e niente”.

Insomma questo “florilegio” è un insieme di suggestioni subliminali molto coerenti fra loro, che da un lato sono la poetica e le convinzioni dell’Autore, dall’altro impreziosiscono il racconto e rappresentano il vero lascito che l’Autore affida al poeta, all’uomo e al patriota magnificato.

Il romanzo ci parla? Hrand ci parla? L’Autore ci parla? Ci parlano certo, in modo forte e chiaro, dal momento che l’oggi è un’epoca di spettacolo, spesso di stilemi scontati, di vanesio protagonismo.

 

 

 

commenti (8)

SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO: Recensioni

SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO: Recensioni - Casina Morgese

RECENSIONI  A SEGUIRE DI: VITO MARANGELLI, DANIELE MARIA PEGORARI, ANNALISA BONI, ENZA CAPUTO, GIULIA POLI DISANTO, MARY SELLANI (2), ANDREA LATERZA, PIERO FABRIS (2), GIUSY CARMINUCCI, CARMEN MARI.

 

 

IL NUOVO LIBRO DI WALDEMARO MORGESE: CHE DIRE? HO UNA SOLA POSSIBILE DEFINIZIONE. “MULTI…”

 di Vito Marangelli

 [Gruppo Facebook Il Periscopio-Osservatorio della vita culturale e politica molese - 12 aprile 2021

https://www.facebook.com/groups/855075411196214/permalink/3811423392228053/].

 Ho appena finito la lettura integrale del libro recentemente uscito di Waldemaro Morgese ("Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo. Racconti", Giazira Scritture ed., 2021), una silloge di racconti che sintetizza gli aspetti multiformi della personalità dell'autore.

 Il "multi..." della mia definizione si riferisce alla diversa natura dei racconti, tutti piuttosto brevi e godibili, ma anche al fatto che l'Io Narrante si incarna in personaggi assai diversi (uomini e donne), alla diversità degli stati d'animo, alla diversità dei temi (scopro un Waldemaro appassionato di fantascienza che mi era finora ignoto, ma anche di matematica). Insomma, lo specchio perfetto dell'intellettuale curioso del mondo che noi abbiamo imparato a conoscere nel tempo.

Tra i vari racconti avrei voluto segnalarne qualcuno in particolare, ma poi ho deciso che non avrei saputo quale scegliere con priorità. Quello che mi sembra di aver colto è il tema dominante dell'autobiografia che apre squarci intensi sull'anima dell'autore. Alcuni racconti sono veramente toccanti.

 ll nome completo dell'autore è "Antonio Waldemaro Ottone", nome che implica una corposa eredità di carattere anche artistico, vista la professione del nonno Ottone Pesce, compositore e direttore d'orchestra per il quale Waldemaro nutre una vera e affettuosa ammirazione. Quando sei in quella fase dell'esistenza in cui i vecchi amici cominciano ad abbandonare questa vita, non puoi che ricordarli con commozione.

Ma, Waldemaro, nuovi amici sono pronti ad ascoltarci, è una assoluta verità. Insomma, un libro di cui consiglio vivamente la lettura. In libreria a Mola alla "Libreria Culture Club Cafè" di Domenico Sparno.

 

 

 

QUEI 25 PERSONAGGI IN CERCA DI SCIAMANI NOTE E…ARABE FENICI – I racconti di Waldemaro Morgese

di  Daniele Maria Pegorari

[La Gazzetta del Mezzogiorno - 4 giugno 2021, p. 15].

 La fantasia narrativa di Waldemaro Morgese (1945), autore sempre a cavallo fra racconto d’evasione e saggismo, fra autobiografia e invenzione, trova in quest’ultimo libro, Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo (Giazira scritture, Noicattaro 2021), la via convincente di una serie di brevi racconti di varia ispirazione; variabile è anche il punto di vista, sempre «interno», ma ora maschile ora femminile, con un effetto che spiazza piacevolmente il lettore che nelle prime righe di ogni bozzetto prova a scommettere sul genere, sul carattere e sulle inclinazioni di gusto della voce narrante.

Ad accomunare questa pluralità di voci, tuttavia, c’è una sorta di «aria di famiglia» che individuerei nella loro «memoria di carta»: più che di bibliofilia, intesa come collezionismo raffinato o compulsivo, i personaggi di questi venticinque racconti si muovono divaganti a partire quasi sempre dalle loro letture, dal loro ricorrente mestiere di bibliotecari, dalla curiosità con cui essi spaziano dal romanzo di viaggio alla matematica, dalla letteratura esoterica a quella politica, dalla storia locale alla musica colta.

Impossibile non pensare allo spazio concreto della biblioteca della bella casina di campagna dell’autore, dove molti dei libri di cui si parla sono effettivamente custoditi, eppure l’abilità di questa scrittura ne fa il tappeto elastico di salti nel sogno, negli accostamenti bizzarri, negli svolazzi dell’affabulazione. Aneddoti e curiosità qui diventano spiragli che immettono in mondi alternativi, interstizi attraverso i quali i lettori accedono alle dimensioni alternative delle favole e della realtà virtuale, delle reincarnazioni e dello spazio microscopico.

Allora ci commuoviamo per il cane che attende la voce del padrone rimanendo incollato alla tromba del grammofono e il particolare si colora improvvisamente di allusioni transumaniste circa la prosecuzione della vita attraverso la macchina; seguiamo la disperazione del comandante Adamo, superstite di un naufragio cosmico, il cui pensiero (forse l’ultimo) va a una danzatrice di ritmi tribali; facciamo una zingarata in auto con lo smemorato Vittorio oppure indossiamo il visore in un museo virtuale per trovarci al cospetto delle piramidi sul Nilo o fra le armature scintillanti dei paladini ariosteschi, ma forse nell’un caso e nell’altro solo per tentare di sfuggire al tedio del presente; ascoltiamo gli Style Council in una Varsavia che fa le prove generali di democrazia liberale, Bernstein che dirige la nona di Beethoven in una Berlino appena riunificata e la Roma capomunni di Nino Rota suonata a Bari per pochi intimi. Forse una chiave di lettura è offerta dal trittico di icone allineato nel racconto intitolato, non a caso, Heroes: Giordano Bruno (il teologo eretico che avrebbe aperto la strada al concetto di multiverso), Don Chisciotte (il cavaliere che non si arrende alla prosa della modernità e si ostina a interpretare il mondo secondo un codice favoloso) e la DeLorean (la supertecnologica automobile di Ritorno al futuro). Come dire: spregiudicatezza della ricerca, rifiuto della prassi e fiducia nella tecnica che, contro ogni apparente contraddizione (soprattutto del termine medio rispetto agli altri due), si costituiscono come virtù di quel tipo di intellettuale illuminato, diciamo pure ‘umanista innovatore’ che Morgese da sempre ha cercato di incarnare e di favorire con la sua attività di civil servant, professionalmente prima, creativamente poi.

In questa affascinante triangolazione sta forse il segreto per coniugare renitenza al conformismo e visione progressista della storia, nostalgia del passato e curiosità per il nuovo, inettitudine e attivismo. Ciò di cui abbiamo bisogno per scansare le odierne banalità insidiose «della ripresa e della resilienza».

 

 SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO: IL PATTO AUTOBIOGRAFICO DI WALDEMARO MORGESE

 di Annalisa Boni

[Casinamorgese.it - 23 giugno 2021].

Anton Čechov ha teorizzato che un racconto si caratterizza da un’introduzione, un climax e da una epifania o denouement che potrebbe essere grossolanamente tradotto ‘l’esito di una storia’.

Waldemaro Morgese con il suo nuovo libro Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo, edito da Giazira Scritture, ci regala venticinque racconti. Questi racconti possono essere assaporati in maniera discontinua o no, secondo l’umore del lettore. Apparentemente nulla o poco lega un racconto all’altro a parte un clin d’œil all’intestazione del volume che fa echo ad alcuni titoli delle venticinque storie riunite in questo testo.

Hemingway diceva che il miglior prologo ad un romanzo sono i racconti nei quali, a prima vista, sembra che nulla di clamoroso accada ma, in realtà, i fili sottili della vita sono già ben dispiegati.

In questa raccolta, infatti, il tono è prevalentemente pacato, delineato dall’uso del discorso diretto, da un lessico preciso ma per lo più quotidiano. Tuttavia, quasi ogni racconto ha svariati riferimenti, qui elencati non in maniera esaustiva : bibliografici, musicali, cinematografici, politici, storici, di antropologia e di scienze agrarie. Nello specifico, nel ventiquattresimo racconto intitolato Banane gialle, il lettore s’imbatte nel termine ‘debbio’ che definisce la pratica ancestrale di rigenerare i terreni bruciandoli.

Inoltre, in questi racconti prevalgono i personaggi maschili, tutti protagonisti, i quali si delineano per l’acutezza di osservazione, di riflessione e discernimento. Sono uomini guidati da uno spiccato senso dell’osservazione, molta curiosità, a volte sono sorprendentemente caparbi, ma in genere dotati di molto buon senso e di un pizzico di melanconia.

Si potrebbe azzardare allora che Waldemaro Morgese faccia celatamente con il lettore il cosidetto ‘patto romanzesco’ che è la pratica manifesta della non-identità (autore e personaggi non portano lo stesso nome) e dell’attestazione di fittività. Ad ogni modo, i racconti hanno una semantica molto vicina all’autobiografica o all’autofinzione, in cui la forma letteraria rimanda agli spazi letterari della vita. Nel delizioso tredicesimo  racconto Il viaggio, un uomo di una certa età incomincia un viaggio in auto con un amico, e partendo da una regione che potremmo definire la  Puglia, man mano che  attraversa diverse regioni d’Italia, offre al lettore il suo intimo stato d’animo che culmina, alla fine di questo racconto, a mo’ di epifania, con la certezza della fine del legame di amicizia che lo legava al suo amico e anche accompagnatore di viaggio.

Ecco le frasi finali di questo racconto: «Giunto nel paese faccio qualche congettura: amare i viaggi può essere un diversivo, cioè una maniera per disinteressarsi del presente? È per questo che Vittorio all’improvviso ha dimenticato chi è e il suo oggi ? Oppure la sua malattia purtroppo incalza? Spero che la risposta sia la prima, ma in ogni caso era finita una grande amicizia».

In modo contrario, noi, da lettori, rinnoviamo il nostro amichevole affetto e la nostra gratitudine a Waldemaro Morgese per questa preziosa raccolta di racconti.

 

LEGGERE UN LIBRO È DIALOGARE IN SILENZIO CON L’AUTORE – (WALDEMARO MORGESE, SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO, GIAZIRA SCRITTURE, NOICATTARO, 2021, PAGG. 160)

 di Enza Caputo

[Casinamorgese.it - 25 giugno 2021].

Leggere un libro è dialogare in silenzio con l’Autore, è ricostruire l’insieme dei significati del testo. Nei venticinque racconti del libro di Waldemaro Morgese, il reale, il fantastico, il concreto, l’onirico si susseguono, si richiamano a vicenda ed elementi del mondo reale si fondono con le immagini del sogno, del surreale, tra storia e mistero.

Lo stile narrativo richiama opere pittoriche del surrealismo, che inquietano (Salvator Dalì) e rasserenano per la vivacità cromatica (Chagall, Matisse, Mirò).

«…Passo dallo sconforto più nero alla speranza e poi di nuovo ricado nella disperazione e così via. Sono diventato un pendolo», parole che comunicano l’esperienza, la dinamica di un incubo.

I primi racconti sconcertano, perché il fantasioso e il reale sono così in equilibrio che non è definibile dove inizia la rappresentazione concreta e dove subentra quella irreale.

Si riscontra nei venticinque racconti un fil rouge: un amarcord felliniano, non racconti autobiografici, ma la testimonianza di una certa stagione, vissuta dall’ Autore.

Egli si diletta a inventare, pertanto sono autobiografie un po’ approssimative, racconti di vita ispirati, appassionati.

In questo lavoro l’autore si racconta attraverso i personaggi: Francis, Arturo, Nora, Francy, Carla, Roberto, Marcella, Martino, Elektra, Umberto, Irene…

Emerge, pertanto, una rievocazione nostalgica nel senso più delicato, intimo, a volte malinconico che sconfina nella ricerca della propria identità e del senso della vita. Lo stile onirico, sognante, irreale del linguaggio domina.

Ad esempio ne La porta del tempo, si disquisisce su complessi ragionamenti fantascientifici, filosofici e il linguaggio è, spesso, vago e indefinibile. La conclusione realistica.

Nell’incipit di Io e Nora la protagonista esordisce: «Ci tengo a illustrare la mia filosofia di vita e a spiegare quanto importante sia la cultura, soprattutto ai giovani che frequentano la biblioteca in cui lavoro» (pag. 33). E poi i problemi sociali: l’uomo e la donna alla ricerca della propria identità di genere. Cronaca nera: scontro tra un padre e un figlio che dichiara la sua omosessualità e che finisce in tragedia.

La sacralità della natura emerge nella descrizione dell’ambiente agreste di collina di cui la protagonista è innamorata e che le dà tanta serenità e felicità, coinvolgendo egregiamente il lettore, facendolo riflettere sulle problematiche ambientali.

Nel racconto Meticciamento, lo stupore, Antonio confessa il suo hobby: «…Contemplare il cielo stellato, ma anche albe nelle incipienti frizzanti mattine, appena sorto il sole. Oppure i rossi tramonti…» (pag. 40). La protagonista, raccontando le sue esperienze di studio, si sofferma sull’ annoso contrasto e spaccatura tra cultura umanistica e scientifica. Ricordo che con il dettato legislativo del 1979, i nuovi Programmi per la Scuola Secondaria di primo grado, si attuarono strategie didattiche per il superamento della dicotomia fra questi due ambiti culturali, indicando la ricerca geografica come strumento «per superare la frattura fra scienze umane e sociali da un lato e scienze naturali dall’ altro». La Geografia utilizza una pluralità di linguaggi «differenti e perciò non gerarchizzabili, il cui possesso integrale è necessario per una formazione completa della personalità umana» (Andrea A. Bissanti, Puglia, geografia attiva, perché e come, ad uso dei docenti, Mario Adda Editore, Bari, 1991, pag. 69): linguaggio verbale, numerico, elaborazione dei dati, rappresentazioni grafiche, cartografiche, simboliche, iconiche. La ricerca accademica si apre al territorio, collabora con la Scuola che, a sua volta, rivede e aggiorna finalità, metodologie e contenuti. Meticciamento, interdisciplinarità nella didattica.

Il senso della vita in Tre figure altere: «…la vita vale per quel che si è capaci di testimoniare e loro tre, da questo punto di vista, sono assolutamente tranquille» (pag. 118). Conclusione di foscoliana memoria, che richiama gli ideali di vita del Poeta: “La religione delle illusioni”, vera esigenza dello spirito.

Insieme, un racconto inizialmente didascalico: «…non bisogna sprecare la nostra vita, che ogni suo momento è prezioso, quindi che a ogni anno bisogna dare valore e viverlo in modo importante» (pag. 62). E poi l’amore, un nostalgico raccontarsi: le trasgressioni giovanili e “i ricordi dell’adolescenza”, i viaggi in continenti e Paesi con un’organizzazione sociale e culturale molto diversa: «ove il medico e lo sciamano si confondono, il guerriero e il folle, il mago e il pescatore…». Una conclusione dolorosa, una sofferenza discreta.

In 8691 un raccontare esperienze che si sono trasformate in incubi ricorrenti. «Dimenticare tutto e tutti». Una scelta di vita in solitudine a contatto con una natura, con fenomeni estremi, il piacere di rileggere frasi di un libro: «In realtà sono attratto dalle incursioni esoteriche, quelle… che ci dicono… che la realtà non è quella che sembra».

Banane gialle: episodi della quotidianità che richiamano alla mente del protagonista, ormai vecchio, le scelte ideologiche, politiche e le convinzioni sociali di gioventù.

In Racconto italiano, il venticinquesimo racconto, quello conclusivo, i toni amareggiati dell’incipit vengono cancellati dall’amore per la cultura, che procura al protagonista momenti di gioia, di felicità. Si chiude il cerchio, conclusione onirica, surreale, misteriosa: «… non so neppure se questa città è materiale, un luogo geografico, insomma, oppure una nuova condizione del mio essere».

Una lettura coinvolgente. La rappresentazione della vita dei diversi personaggi richiama al lettore le sue esperienze e ne è attratto e coinvolto. Come è accaduto a me. Il ricordo del Maestro Nino Rota, molto vicino alla mia famiglia, la partecipazione ai suoi concerti, fra i tanti, alla prima assoluta a Perugia, settembre 1970, della rappresentazione de La vita di Maria per voci, coro e orchestra. E tanti gli episodi e gli aneddoti arricchenti sul piano umano e culturale. Quando si andava a Roma, era diventata una consuetudine incontrare il Maestro Rota, sempre molto ospitale.

L’amore e la sacralità della natura mi ha fatto riscoprire libri a me tanto cari, uno fra tutti Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati, letto qualche anno fa con i miei ragazzi e ragazze di seconda media, da loro molto apprezzato. Ritrovo l’amore per il paesaggio agreste con le tradizionali colture che, ahimè, subiscono l’inesorabilità dello scorrere del tempo.

Lo stile linguistico dei racconti è caratterizzato da un registro espressivo: lo spazio del raccontare è in una zona indefinita che sta attorno alla realtà, la surrealtà, e che lascia libero l’autore nel gioco dell’immaginazione, della fantasia, del fantascientifico, del virtuale…

Waldemaro Morgese, raffinato intellettuale, pur con formazione umanistica, sostiene e promuove un approccio multimediale alla cultura (Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Tascabili Bompiani, Milano, IX edizione, gennaio 1990, pp. 391). Ho dialogato volentieri con l’Autore attraverso la lettura del suo libro che emoziona, fa sorridere, sconcerta, fa riflettere, dà spunti per approfondimenti. Buona lettura.

 

IL RICORDO E IL SOGNO FILTRATI DAL TEMPO NEI RACCONTI DI WALDEMARO MORGESE

di Giulia Poli Disanto  

[Casinamorgese.it - 31 luglio 2021].

Waldemaro Morgese, autore di numerose e consolidate pubblicazioni, con il suo ultimo lavoro “Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo” (Giazira scritture), consegna al lettore venticinque racconti in cui il ricordo e il sogno permettono all’Autore di recuperare il rapporto con la realtà per superare la vita che passa.

Ricordare è sempre un percorso doloroso della mente per ciò che di bello e di gioioso abbiamo vissuto, per ciò che siamo stati e non siamo più. Il sogno è fantasia e immaginazione perché costituisce il mezzo per guarire la malattia della vita, e che Giovanni Pascoli sviluppa nella poetica del fanciullino. Tra il ricordo e il sogno interferisce il tempo, come una forza capace di cancellare e trasformare tutto. Il tempo perduto che la coscienza ha assimilato, accantonando i ricordi che la memoria involontaria mantiene e che l’Autore riporta in superficie proprio attraverso la scrittura, magari grazie ad un sapore ad un profumo ad una madeleine, per dirla con Marcel Proust.

Nei venticinque racconti, dicevo, il tema del ricordo spesso si presenta come rievocazione, rielaborazione di un passato ormai lontano e sfuggente, come reminiscenza di figure di luoghi e di eventi di carattere personale. Come ricordo, appunto, di un passato storico doloroso e/o gioioso e indimenticabile: E pur mi giova la ricordanza e il noverar l’etade del mio dolore, scriverà Leopardi nello Zibaldone.

I racconti evidenziano diverse tematiche dove il concetto di morte, dell’handicap e dell’amore trascinano il lettore in un viaggio che introduce alla vita, a quella vissuta e a quella ancora da vivere per cercare nelle pieghe dei ricordi la strada maestra che quasi sempre è priva di pericoli, o quanto meno insegna ad evitarli. Il tutto è raccontato con un linguaggio essenziale e maturo, ovvero un registro linguistico asciutto e corposo dove lo stile, chiaro e scorrevole, riporta alla mente i quarantanove racconti di Ernest Hemingway.

Il pregio di questi componimenti è la brevità. Le due pagine, o quasi, che li caratterizzano allertano sin dall’inizio l’attenzione del lettore, lasciandolo quasi sempre sorpreso per la chiusa mai scontata. Il filo rosso che li accomuna è la voce narrante del/della protagonista. Il tempo è un elemento essenziale che emerge in tutti i racconti e scorre tra passato e presente attraverso i diversi personaggi anche storici (vedi Giordano Bruno, Pitagora, Francis Drake) e a volte anche nella sua crudezza, vedi Io, Nora.

Perché non parlare anche di racconti intesi come eteronomi dell’Autore, magari alla maniera del portoghese Fernando Pessoa? Un intreccio di voci e di personaggi scomposti in varie altre personalità che sanno di vissuto, di passione all’insegna dell’umanità, dell’amore, del Recuerdo (riferimento al famoso tango dell’italo-argentino Osvaldo Pedro Pugliese) nonché della poesia dove l’emozione delle letture di Apollinaire, Mallarmé, Rimbaud hanno un ruolo fondamentale nel giovane protagonista del racconto Insieme: «Pongo fine ai ricordi dell’adolescenza e, calata la sera, tornati io e la mia compagna a casa, avverto il bisogno di tuffarmi nel mondo dolcissimo della poesia», afferma Roberto prima di tuffarsi nuovamente nei viaggi e nei ricordi di ciò che è stato.

Raccontare, quindi, per Waldemaro Morgese è una necessità per esorcizzare il passato, oppure è una finzione per superare il presente?

La risposta ci arriva dallo stesso Autore in Racconto italiano che, rifacendosi a Elogio della letteratura e della finzione di Mario Vargas Llosa, riporta: «Così come scrivere, leggere è protestare contro le ingiustizie della vita. Chi cerca nella finzione ciò che non ha, dice, senza la necessità di dirlo, e senza neppure saperlo, che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto, fondamento della condizione umana, e che dovrebbe essere migliore».

La finzione, allora, ci viene da pensare, è per l’Autore una componente congenita all’essere umano che in questo modo esprime meglio la sua emotività. Finzione che – a mio parere, e per pirandelliana memoria – parte sin dall’infanzia, tenendo conto che l’essere umano indossa la sua maschera tutte le volte che si rapporta con un suo simile.

Per concludere: ritengo questi 25 racconti molto interessanti sia dal punto di vista emotivo che letterario. Quel gioco spontaneo che parte dal ricordo e si sofferma poi sul sogno, finisce con l’essere filtrato dal tempo che, come tutti sappiamo, è un implacabile censore degli eventi della vita.

 

SCIAMANI, ARABE FENICI…

 di Mary Sellani

 [Il Quotidiano di Bari - 3 agosto 2021].

 Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo, ultima pubblicazione di Waldemaro Morgese, scrittore, saggista, editorialista (Giazira scritture, 160 pagine, 13,00 euro), composta da 25 capitoli, è una raccolta di ricordi rievocati in forma di racconti brevi, e nascenti prevalentemente da memorie di libri letti in grandissima quantità. In possesso di questa enorme erudizione, Morgese si diverte talvolta a metterla a disposizione anche della fiction.

Operazione in cui egli cita puntualmente autori noti e meno noti che sollecitano ad ogni modo le sue riflessioni sulla vita, sulla società, su problemi morali o ideali, sul valore della conoscenza e della cultura. Ripercorrendo la lettura di libri con tale facilità sembra quasi che egli non ami vivere la propria vita, ma la vita “già vissuta”, ricalcando orme che sono già state calcate: citando, ripetendo, riscrivendo, fondendo il presente con il passato.

Ecco allora che, attraverso le letterature del mondo, egli si cimenta con la propria scrittura in una regione più ampia della realtà nella quale è immerso, vivendo un’esistenza non personale ma puramente psicologica, e finendo così per percorrere l’universo.

Aggiungendo poi un pizzico di mitologia alle storie lette, la realtà da lui descritta diventa più scintillante, piena d’incanti e seduzioni, misteriosa e contraddittoria nell’alternarsi perenne tra la luce il buio. Si intuisce così, tra le letture di volta in volta scelte per la stesura dei suoi racconti, ciò che più soddisfa la sua immaginazione: il viaggio, la fuga, la metamorfosi, il naufragio, la recitazione, la menzogna, la fine di un’amicizia, il rifiuto della prassi, la fiducia nella tecnica, la refrattarietà al conformismo, la nostalgia del passato e l’attrazione per il nuovo.

Ma la parte più riflessiva della sua mente lo porta anche a riconoscere che crescendo intellettualmente ci si accorge, per esempio, che il bene e il male non stanno tutti dalla stessa parte. Lo si percepisce nel racconto Banane gialle quando il protagonista, interpellando un amico dopo aver acquistato delle banane da un ambulante di strada, tra cui ve ne sono alcune marce, riflette: «Io nella mia vita sono sempre stato a favore dei lavoratori e dei piccoli operatori economici. Le multinazionali e comunque il grande commercio li odio. Ora cosa sta accadendo? Che ho mandato a quel paese un povero ambulante e mi sono ripromesso di cadere per sempre nelle fauci della grande distribuzione! È una catastrofe, i miei principi di una vita che fine hanno fatto?». La risposta dell’amico al suo dilemma è che «bisogna distinguere caso per caso, che non si può prendere una decisione per così dire ideologica, cioè a prescindere!»

Non contento di questa spiegazione egli rintraccia un libro dalla sua biblioteca, Terra nuova e buoi rossi di Emilio Sereni (1981) in cui l’autore ricostruisce l’antica pratica agricola del “debbio”, vale a dire rigenerare con il fuoco i terreni. Fatto sta che il racconto si conclude con la decisione del protagonista che d’ora in poi comprerà le banane anche dal diavolo, purché le possa mangiare con gusto. È l’evoluzione del mercato globale bellezza!  Che vuol dire benefici per alcuni e sacrifici per altri. Purtroppo, di paradossi e scomuniche di ideologie salvifiche è fatta la Storia del nostro Novecento. Ed in questa ambivalenza sembra muoversi tutto il libro di Morgese.

 

“SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO": GLI INTRIGANTI SCENARI DI WALDEMARO MORGESE

di Andrea Laterza

[molalibera.it - 26 agosto 2021].

Se un titolo può essere la fortuna di un libro, ebbene questo lo è.

La struttura apparentemente frammentata è invece condotta da un intenso fil rouge che tutto tiene e tutto pervade.

I racconti sono asciutti e colpiscono la mente e l’animo del lettore come un colpo veloce, a volte feroce. E’ nell’intima essenza dei personaggi, tutti o quasi alter ego dell’Autore, che si esalta la cifra stilistica del libro.

Morgese riprende e ripercorre a volte le gesta di alcuni dei protagonisti di altri suoi romanzi, in particolare I guerrieri cambiano e Città buie, portando Nora e altri a disvelarsi ancor più e meglio, in un gioco di specchi multiforme, dove la realtà, il sogno, l’idealità, il passato, il presente e il futuro spesso si fondono e si sovrappongono, dando vita ad un caleidoscopio di suggestioni e riflessioni molto intense.

Nei venticinque racconti, l’Autore racchiude la sua filosofia di vita: la cultura come momento fondante nella vita di un essere umano senziente e cosciente; la letteratura, l’arte, la musica come la melodia che fa vibrare le corde più profonde e che tutto trascende, anche in un futuro onirico e fantascientifico.

Pure le incursioni nel presente dell’Autore, con la citazione di personaggi e fatti identificabili, è sempre connotata da interrogativi di fondo, mai da asserzioni apodittiche, sebbene il laicismo di Morgese non faccia sconti: egli si pronuncia con nettezza e chiarezza sui valori di fondo che dovrebbero permeare una comunità matura, proiettata verso migliori traguardi di consapevolezza collettiva.

I personaggi dei racconti sono problematici, complessi, mai lineari e adamantini: anche quando provengono dal popolo e da sacche di disagio sociale e non dalla borghesia delle arti e delle professioni, recano con sé un’inquietudine di fondo che la volontà di riscatto, attraverso il libro e il viaggio, non riesce a diradare, ad illuminare completamente.

L’ambivalenza e spesso l’ambiguità dei “guerrieri” che abitano anche questo libro dell’Autore, testimoniano la difficoltà del quotidiano, l’incertezza del presente, l’angoscia del futuro, il contrappasso da scontare vivendo.

Il viaggio intricato, attraverso la finzione della mente e l’evanescenza di luoghi fisici e metafisici, conducono i personaggi nella logica labirintica di Borges: «Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non innalza un labirinto su un luogo alto della costa, un labirinto cremisi che i marinai avvistano da lontano. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l’universo già lo è» (Abenjacàn il Bojarì, Jorge Luis Borges).

Ecco, i personaggi dei venticinque racconti di Waldemaro Morgese, si perdono in quell’immenso labirinto che è la memoria, il sogno, il desiderio, la mente universale di ogni uomo.

Vi navigano avanti e indietro nel tempo, con suggestioni letterarie e sciamaniche, cyborg che risorgono come arabe fenici, banane gialle di antico e maieutico impegno sociale e un mambo caraibico e ritmico, preludio del viaggio per mare, l’unico che nell’immaginario collettivo, dalla peregrinazione omerica, abbia il senso dell’avventura e, al tempo stesso, della sacralità.

La lettura è immediata, godibile, ricca di erudite citazioni, intrigante.

  

I 25 RACCONTI DI WALDEMARO MORGESE: PERSONAGGI INQUIETI ALLA RICERCA DELLA VIA PER ITACA

di Piero Fabris

[molalibera.it - 11 settembre 2021].

Un periplo di riflessioni è il testo: Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo (Giazira scritture); una rete di storie nelle quali Waldemaro Morgese non solo si specchia, ma getta l’àncora della speranza nel porto del futuro. Come un salmone nelle correnti dell’Oceano dello scibile si muove l’Autore. Un lavoro nel quale si coglie la proiezione dei suoi trascorsi e dei suoi vividi dubbi.

Racconti come volumi di un’enciclopedia che rimandano non solo a memorie, quanto alla Cultura come strumento per rintracciare le coordinate dell’umanità integra che trova nelle biblioteche dello scibile i cunicoli luminosi per gli affamati del sapere.

Racconti con i quali l’autore, il saggista, l’editorialista ci restituisce personaggi meditabondi, anzi il luogo del loro spirito irrequieto che si incammina nella bruma del domani possibile.

Attraverso queste pagine ci restituisce le figure di quanti sopravvivono oltre il tempo, in una dimensione fantastica e amara, magari mistificata dall’immaginario di spazi paralleli.

Waldemaro Morgese dà voce alle incertezze e agli interrogativi di esseri che come naufraghi cercano la via per Itaca in una realtà deturpata: il pianeta amato, vissuto, nel quale ci si sente estranei.

Lo scrittore, da fine polemista, restituendoci nomi e spartiti d’artisti relegati nella soffitta di vite passate, evoca spettacoli e atmosfere come bagagli per affrontare il divenire.

Un condensato di interrogazioni che obbligano a compiere fermate nel pronao di se stessi, sulla soglia del Dio Bifronte o della Dea Kalì che in pochi attimi brucia ogni velo d’ipocrisia!

Sono pagine della curiosità dei piccoli, tratteggiati con incisività nel bisogno argenteo di sapere, simbolo di bisogni genuini di capire, dell’onestà intellettuale così diversa da colui che ha smesso di camminare, felice della presunzione d’essere andato oltre il grammofono, ma che nel profondo rimane un troglodita.

È il contraddittorio e l’analisi lucida, il vero filo conduttore delle venticinque narrazioni! È il desiderio di viaggiare sempre per crescere e il guardare tutto attraverso ottiche del distacco concentrato e del credere nella cultura e ricerca come dispensa d’ingredienti per discernere tra miraggi del deserto e illusionisti, per aprire nuovi sentieri.

Libro di racconti come “luogo/crogiolo” dei pionieri del pensiero che desiderano guardare a chi ha fatto la Storia.

Lo stile, asciutto e scorrevole dei racconti, inanella ricordi ed esperienze con immediatezza.

L’erudizione e le citazioni puntuali tornano, senza retorica, come rintocchi di una pendola che disegna invisibili archi evocatori di universi, ideologie, metamorfosi dell’essere, misura di bisogni autentici «sulla strada/inerpicata al cielo…», capaci di strappare l’inganno di certa nostalgia del passato, grazie a uno sguardo limpido, razionale, concentrato e distaccato da venditori di balle di Banane nel dubbio che interroga la vita con le sue contraddizioni e potenzialità. 

 

 

   

SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE E MAMBO. UN LIBRO DI RACCONTI TRA PASSATO E FUTURO SCRITTO DALLO SCRITTORE MOLESE WALDEMARO MORGESE

di Giusy Carminucci

[Fax – edizione di Mola di Bari – 11 settembre 2021, p. 20].

Waldemaro Morgese ci propone con la sua ultima passeggiata letteraria un libro interessante, Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo, edito da Giazira. Si tratta di una raccolta di brevi, ma intensi racconti di varia ispirazione, adatti ad un lettore più maturo.

Ogni narrazione è una sorta di monologo interiore, in cui l’Autore sembra essere in dialogo con se stesso, quasi alla riscoperta del proprio tessuto identitario: a volte delle proprie radici, altre di un luogo fisico o psicologico da esplorare e rendere fedelmente, ma sempre carico di emozioni, al lettore, che, ignaro, viene dolcemente avvolto in un’aura di mistero. Dirà il Nostro: «Si tratta di scomparire e ritrovarsi in un luogo dai contorni sconosciuti». E ancora: «La proposta consiste nell’andare incontro al mistero totale: ci confortano solo le storie raccontate dalle nostre nonne con protagonisti elfi e uccelli di fuoco che rinascono dalle loro ceneri».

Nei suoi “cortometraggi di carta” – così mi piace definire questi racconti – Waldemaro Morgese affida le immagini alle parole e alla fantasia del lettore e con aneddoti e curiosità lo immette in meandri della memoria, in spazi che sembrano reincarnazione di mondi futuri. Così i temi trattati sono quelli legati ai problemi esistenziali: la famiglia, l’amore, l’amicizia, la miseria umana, la morte e l’eternità, le relazioni umane, il meticciamento delle culture, la solitudine, l’eremitaggio, la capacità empatica di comprendere realmente l’altro. «Il problema è cosa mai accadrà ai nostri corpi senza programmare. Alcunché»: farà dire lo scrittore ad uno dei suoi personaggi.

Icona, quasi logo addirittura di ciascun racconto sono i libri, ben esposti nella “vetrina delle meraviglie” che è la biblioteca: «Di cosa si tratta esattamente? Di una grande bacheca di vetro con tre mensole anch’esse di vetro, ben piantata per terra alla vista di chiunque, con dentro, collocati in giusta esposizione, libri e documenti rari: meraviglie, appunto!»

Libri regalati, ritrovati, già letti, proibiti: trampolini di lancio di relazioni raccontate, luoghi indiscussi di ricordi e di finzione, ma anche spazi in cui, meglio che in ogni altro luogo, si esprime l’emotività… e tutto questo definito con estrema chiarezza ora da uomini ora da donne.

L’alternanza di genere nei protagonisti non è casuale: sembra voler soddisfare il principio secondo il quale medico e sciamano, guerriero e folle, mago e pensatore, Yin e Yang si confondono, dando luogo all’inimmaginabile, creando quello scenario misterico che alimenta la voglia e il desiderio di compiere il viaggio della vita, per soddisfare la sete di Assoluto e affrontare “lo star bene con qualcuno”, proprio come Elektra fa con il suo uomo.

Leitmotiv della narrazione è, infatti, l’Amore: ora per un nonno che non c’è più, ora per un amico perduto, ora per vecchie passioni rispolverate, ora per una donna molto più giovane, ma – come suggerisce il Nostro - «l’Amore non è contare gli anni, ma far sì che gli anni contino…».

8691 è il racconto in cui si avverte più forte nell’Autore il sentirsi ancorato ad un presente che profuma di un futuro incerto, ma che contemporaneamente lo attira verso misteriose strutture portanti della propria vita, che costruiscono ponti tra passato e futuro: «L’anno in cui tutto ebbe inizio lo riconoscerei anche se me lo scrivessero al contrario con l’effetto specchio»; «La vita è una cosa complicata e in molti casi c’è bisogno di prendere tempo prima di risolversi a fare qualcosa, qualunque cosa, anche rispondere a un’innocua domanda».

Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo è un agile libro di piccole ma intriganti storie di vita, raccontate da uno scrittore che vuole porgere al lettore fotogrammi di una realtà nitida, capace di superare lo scoglio della finzione, per tuffarsi in un intrigante dedalo di sogni e desideri.

 

WALDEMARO MORGESE: SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO (GIAZIRA SCRITTURE, NOICATTARO, 2021)

di Mary Sellani

[“Incroci Online” – 12 settembre 2021. Posted by: redazioneincroci on: 12/09/2021 in: narrativa | recensioni]

 

Quest’ultima pubblicazione di Waldemaro Morgese, scrittore, saggista ed editorialista, composta da venticinque capitoli, è una raccolta di ricordi rievocati in forma di racconti brevi e nascenti prevalentemente da memorie di libri letti in grandissima quantità. In possesso di questa enorme erudizione, l’autore si diverte talvolta a metterla a disposizione anche della fiction. Ne scaturisce un’operazione in cui egli cita puntualmente autori noti e meno noti che sollecitano le sue riflessioni sulla vita, sulla società, su problemi morali o ideali e sul valore della conoscenza e della cultura. Ripercorrendo la lettura di libri con tale facilità, sembra quasi che egli non ami vivere la propria vita, ma la vita ‘già vissuta’, ricalcando orme che sono già state calcate: citando, ripetendo, riscrivendo, fondendo il presente con il passato.

Ecco allora che, attraverso le letterature del mondo, egli si cimenta con la propria scrittura in una regione più ampia della realtà nella quale è immerso, vivendo un’esistenza non personale ma puramente psicologica, e finendo così per percorrere l’universo. Aggiungendo poi un pizzico di mitologia alle storie lette, la realtà da lui descritta diventa più scintillante, piena d’incanti e seduzioni, misteriosa e contradditoria nell’alternarsi perenne tra la luce il buio. Si intuisce così, tra le letture di volta in volta scelte per la stesura dei suoi racconti, ciò che più soddisfa la sua immaginazione: il viaggio, la fuga, la metamorfosi, il naufragio, la recitazione, la menzogna, la fine di un’amicizia, il rifiuto della prassi, la fiducia nella tecnica, la refrattarietà al conformismo, la nostalgia del passato e l’attrazione per il nuovo. Ma la parte più riflessiva della sua mente lo porta anche a riconoscere che crescendo intellettualmente ci si accorge, per esempio, che il bene e il male non stanno tutti dalla stessa parte.

Lo si percepisce nel racconto Banane gialle, quando il protagonista, interpellando un amico dopo aver acquistato delle banane da un ambulante di strada, tra cui ve ne sono alcune marce, riflette: «Nella mia vita sono sempre stato a favore dei lavoratori e dei piccoli operatori economici. Le multinazionali e il grande commercio li odio. Ora cosa sta accadendo? Che ho mandato a quel paese un povero ambulante e mi sono ripromesso di cadere per sempre nelle fauci della grande distribuzione! È una catastrofe, i miei principi di una vita che fine hanno fatto?». La risposta dell’amico al suo dilemma è che «bisogna distinguere caso per caso, che non si può prendere una decisione per così dire ideologica, cioè a prescindere!». Non contento di questa spiegazione, egli rintraccia un libro dalla sua biblioteca, Terra nuova e buoi rossi di Emilio Sereni (1981) in cui l’autore ricostruisce l’antica pratica agricola del debbio, vale a dire rigenerare con il fuoco i terreni. Fatto sta che il racconto si conclude con la decisione del protagonista che d’ora in poi comprerà le banane anche dal diavolo, purché le possa mangiare con gusto. È l’evoluzione del mercato bellezza, che vuol dire benefici per alcuni e sacrifici per altri.

Purtroppo, di paradossi e scomuniche di ideologie salvifiche è fatta la Storia del Novecento e in questa ambivalenza sembra muoversi tutto il libro di Morgese.

 

COME UN SALMONE NELLE CORRENTI DELL’OCEANO DELLO SCIBILE – Il nuovo volume di racconti di Morgese

di Piero Fabris

[“La Forbice” n. 10 di ottobre-novembre 2021, p. 16].

Un periplo di riflessioni è il testo: “SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO” (Giazira scritture, Pagine 168, € 13,00); una rete di storie nelle quali Waldemaro Morgese non solo si specchia, ma getta l’ancora della speranza nel porto del futuro. Un lavoro nel quale si coglie la proiezione dei suoi trascorsi e dei vividi dubbi.

Racconti come volumi di un’enciclopedia che rimandano non solo a memorie quanto alla Cultura come strumento per rintracciare le coordinate dell’umanità integra che trova nelle biblioteche dello scibile i cunicoli luminosi per gli affamati del sapere. Racconti con i quali l’autore, il saggista, l’editorialista ci restituisce personaggi meditabondi, anzi il luogo del loro spirito irrequieto che si incammina nella bruma del domani possibile. Attraverso queste pagine ci restituisce le figure di quanti sopravvivono oltre il tempo, in una dimensione fantastica e amara, magari mistificata dall’immaginario di spazi paralleli. Waldemaro Morgese dà voce alle incertezze e agli interrogativi di esseri che come naufraghi cercano la via per Itaca in una realtà deturpata: il pianeta amato, vissuto nel quale ci si sente estranei.

Lo scrittore, da fine polemista, restituendoci nomi e spartiti d’artisti relegati nella soffitta di vite passate, evoca spettacoli e atmosfere come bagagli per affrontare il divenire. Un condensato di interrogazioni che obbligano a compiere fermate nel pronao di se stessi, sulla soglia del Dio Bifronte o della Dea Kalì che in pochi attimi brucia ogni velo d’ipocrisia! Sono pagine della curiosità dei piccoli, tratteggiati con incisività nel bisogno argenteo di sapere, simbolo di bisogni genuini di capire, dell’onestà intellettuale così diversa da colui che ha smesso di camminare, felice della presunzione d’essere andato oltre il grammofono, ma che nel profondo rimane un troglodita.

È il contraddittorio e l’analisi lucida, il vero filo conduttore delle venticinque narrazioni! È il desiderio di viaggiare sempre per crescere e il guardare tutto attraverso ottiche del distacco concentrato e del credere nella cultura e ricerca come dispensa d’ingredienti per discernere tra miraggi del deserto e illusionisti, per aprire nuovi sentieri. Libro di racconti come “luogo/crogiolo” dei pionieri del pensiero che desiderano guardare a chi ha fatto la Storia. Lo stile, asciutto e scorrevole dei racconti, inanella ricordi ed esperienze con immediatezza. L’erudizione e le citazioni puntuali tornano, senza retorica, come rintocchi di una pendola che disegna invisibili archi evocatori di universi, ideologie, metamorfosi dell’essere, misura di bisogni autentici “sulla strada/inerpicata al cielo…”, capaci di strappare l’inganno di certa nostalgia del passato, grazie a uno sguardo limpido, razionale, concentrato e distaccato da venditori di balle di Banane nel dubbio che interroga la vita con le sue contraddizioni e potenzialità.

 

“SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO”: UN VIAGGIO EMOZIONALE LUNGO 160 PAGINE (Giazira scritture, Noicattaro 2021)

di Carmen Mari

[Casinamorgese.it - 5 gennaio 2022].

L’Autore ci regala un affascinante testo che racchiude 25 racconti brevi dalla scrittura di qualità tenuti assieme da un invisibile filo carico di emozioni e popolato da sorprendenti personaggi che si muovono in ambienti e scenari riconducibili a situazioni tra il veritiero e l’inventato ma sempre densi di sentimento.

La voce narrante, a volte femminile a volte maschile, sin dalle prime righe di ogni racconto coinvolge il lettore che di volta in volta si misura con molteplici situazioni e punti di vista: partecipa alla fine di un’amicizia, incontra Antonino autore di stornelli, conosce sciamani e guerrieri, magici astri e affascinanti navi, scopre intriganti meticciamenti…

Il coro dei personaggi conduce la narrazione, scandita da perfetta punteggiatura; così emergono trepidanti scenari e storie della famiglia dell’Autore. Famiglia popolata da poeti, musicisti, letterati ed è con questa eredità esistenziale che i racconti svelano i numerosi interessi di Waldemaro Morgese, che spaziano dalla fantascienza alla letteratura, dalla matematica alla poesia, dall’esoterismo alla musica, dalla storia alla politica. Il libro, come oggetto, si infila in moltissimi racconti mai come protagonista ma sempre elemento palpitante e significativo.

La mescolanza delle categorie che troviamo nel titolo del testo è un fedele annuncio della ricchezza dei contenuti di quest’ opera di ottima fattura editoriale scritta con lucida prospettiva mantenendo l’equilibrio tra le radici salde nel passato e lo sguardo a grandangolo volto al futuro.

La scrittura limpida e possente, compagna dei grandi pezzi letterari classici, fa di “Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo” un libro godibile ed elegante.

 

 

 

 

 

 

 

commenti (0)

28-2-2019/28-2-2021: MARIA A. ABENANTE

28-2-2019/28-2-2021: MARIA A. ABENANTE - Casina Morgese

                                                                            MARIA A. ABENANTE (PROCIDA, AGOSTO 2010)

commenti (0)

29-7-2020: ANNALISA BONI LEGGE IL LIBRO DI VITANGELO MAGNIFICO

29-7-2020: ANNALISA BONI LEGGE IL LIBRO DI VITANGELO MAGNIFICO - Casina Morgese

Il 29 luglio 2020 nell'atrio del Castello Angioino di Mola di Bari è stato presentato il libro di Vitangelo Magnifico "Là dove c'erano le norie" (Gelsorosso, Bari 2020). Nel corso della presentazione, cui hanno partecipato vari studiosi ed eruditi di Mola, l'attrice Annalisa Boni ha letto alcuni brani suggestivi del libro.

Ecco di seguito la recensione al libro di Magnifico scritta da Waldemaro Morgese:

AGRICOLTURA: MORTE O RINASCITA?

Il settore agricolo nel nostro macrosistema economico, storico e ambientale.

Di Waldemaro Morgese

[su Città Nostra n. 199 del settembre 2020].

C’è già chi ha osservato che nelle varie proposte su come utilizzare i nuovi fondi che l’Italia ha avuto dall’UE manchi l’agricoltura; eppure dal 1970 ad oggi la superficie agricola utile si è ridotta di oltre 5 milioni di ettari e l’Italia oggi non solo non è autosufficiente sul piano alimentare (ci manca il 20% del fabbisogno) ma – per chi non lo sapesse – importa anche l’olio d’oliva. Molte produzioni sono “animate” da rapporti di lavoro semischiavistici, gli agricoltori in generale sono sussidiati altrimenti non potrebbero sopravvivere: infatti le cosiddette “filiere” agro-alimentari sono affollate di intermediari e - non potendo il prezzo finale dei prodotti essere superiore ad un certo limite perché oltre i consumi ne risulterebbero disincentivati – il risparmio si fa sul soggetto più debole della filiera, vale a dire l’agricoltore, in gran parte lasciato solo con se stesso.

Per questo Vitangelo Magnifico nella voluminosa silloge Là dove c’erano le norie (Gelsorosso, Bari 2020) intitola la sua premessa La noria è morta! Vorrebbe significare, pessimisticamente, “l’agricoltura è morta” e chiosa: «La misera condizione della nostra agricoltura assume, così, valore di metafora del declino dell’intera comunità, quindi espressione di sottosviluppo, del quale i più non vogliono ancora prendere coscienza». O anche: «Perché all’innegabile ‘progresso’ della nostra comunità non è seguito l’atteso ‘sviluppo’ della nostra agricoltura nonostante la grande tradizione, il prestigio delle produzioni e il sufficiente know-how?».

La silloge ha un sottotitolo: Raccolta di scritti sull’agricoltura di Mola di Bari e dintorni (1970-2020). Nei 98 ‘pezzi’ scelti, fra i tanti scritti dall’Autore in 50 anni di operosa attività e studi, si spazia con dovizia in lungo e in largo sulle problematiche dirette o collegate per mille fili all’agricoltura-produzione. Questo è un fondamentale merito di Vitangelo Magnifico: l’agricoltura non è da lui concepita come una monade, ma come un sistema di civiltà e di ricchezza che connota i luoghi, tributaria e proattiva nel medesimo tempo di innumerevoli fenomeniche economiche, sociali e culturali. Nel volume insomma non emerge solo il ferrato tecnico, esperto di singole produzioni agricole e di singoli prodotti del lavoro agricolo, ma l’accorato sostenitore di un “mondo” plurisecolare che avrebbe grandi potenzialità ma rischia di rovinare su se stesso per insipienza e miopia (politica ma non solo).

Questo ‘sentire’ complesso era tipico di noi giovani del tempo (Magnifico è mio coetaneo, del 1945, solo qualche mese più anziano di me) ed non è facile farlo comprendere ai giovani d’oggi. Mi conforta però che la trentatreenne Marta Barone, inserita nella dozzina del Premio Strega, abbia scritto per il quotidiano la Repubblica del 7 agosto 2020 un bellissimo articolo intitolato Padre e figlio piantano gli alberi per salvare la terra: «rendere quel paesaggio brutale vivibile, fruibile, era una sfida, romantica ma anche sociale, un sogno commovente ma anche la messa in moto di qualcosa che aveva poco a che fare col sentimentalismo e molto con la vita degli umani e degli animali di quel luogo. Creare uno spazio di comunità, di condivisione, una campagna di tutti e per tutti». Nelle aree rurali infatti è tuttora possibile implementare uno spazio di comunità, anzi si tratta di una sfida interessante anche sul piano economico: è l’intuizione alla base degli ecomusei ed è sufficiente riflettere su cosa può diventare la socio-cultura e l’economia che insiste attorno alla “villa”. Per capirlo, basta rileggere le pagine illuminanti di James S. Ackerman consegnate in La villa. Forma e ideologia (Edizioni di Comunità, Torino 2000).

Tuttavia scrivere di agricoltura significa anzitutto affrontare di petto due dualismi che da decenni attraversano il nostro Paese: quello città-campagna e quello Nord-Sud. Sono dualismi storici che si intrecciano fra loro e l’unica maniera per risolverli al meglio fu individuata – da noi giovani del tempo e da una parte dell’infrastruttura politica del tempo – nel metodo della “programmazione”, ma aimé con deludente risultato. Non per nulla Magnifico ripropone opportunamente la recensione che fece nel 1985 su Realtà Nuove (un periodico pubblicato a Mola di Bari) del libro La sfida della programmazione. Movimenti e politiche per l’agricoltura in Puglia, scritto a quattro mani, da me e dal compianto senatore Antonio Mari per le Edizioni dal Sud nel 1985, con una prefazione di Giuseppe Caldarola: un libro di successo, ristampato l’anno successivo. Magnifico così riassume (e felicemente) il libro: «Detto in breve, il resoconto di tutto ciò che doveva essere fatto e non è stato, invece, realizzato nell’agricoltura pugliese dalla istituzione delle Regioni».

L’Autore di certo ricorderà il comune impegno per il recupero delle terre incolte della nostra regione, a partire dagli anni ‘80, sull’onda della legge 285 del 1977. E oggi? Sarebbe senza dubbio utile tornare a programmare, intersecando città e campagna, Nord e Sud, enfatizzando inoltre un quinto convitato di pietra e cioè le aree interne. Secondo molti studiosi il riequilibrio territoriale e il nuovo rapporto città-campagna dovrebbe valorizzare non solo il patrimonio paesaggistico salvandolo dal dissesto idrogeologico, ma anche la società civile che nelle aree interne e rurali sopravvive (oggi residua, ma non è detto che lo spopolamento debba continuare così): una società civile, come ha scritto di recente Dario Di Vico (sul Corsera del 10 agosto), «comunque decisamente più vivace di quanto si possa trovare nei secondi o terzi anelli delle aree metropolitane».

Quando parliamo di città e campagna, di aree metropolitane e aree interne, in sostanza parliamo anche di Nord e di Sud: perché valorizzando le relazioni virtuose fra città e campagna, fra metropoli e aree interne noi in realtà ausiliamo il riequilibrio del rapporto fra Nord e Sud, o per meglio dire possiamo contribuire a riequilibrarlo a patto di agire in modo programmato.

Su tutto ciò ci aiuta ancora Vitangelo Magnifico, nel suo bel libro che parla sì di Mola di Bari ma soprattutto – attraverso l’approccio microterritoriale - dell’Italia e della nostra storia profonda. Infatti egli scrive con accorata chiarezza: «Affrontare il ‘caso studio’ dell’agricoltura molese, oltre a condurre alla formulazione di un modello per la rinascita ambientale ed economica del territorio, è anche un atto dovuto nei confronti dei nostri antenati, i quali, con il lavoro e immani sacrifici, crearono una identità produttiva e morale che ancora caratterizza la nostra comunità e che sarebbe un imperdonabile errore dissipare».

Libri come questo sono pietre miliari importanti della microstoria e microeconomia: se riguardano Mola di Bari dobbiamo esserne vieppiù orgogliosi e riconoscenti.

 

 

commenti (0)

KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS: recensioni

KATASTROFE'. L'ITALIETTA NEL CORONAVIRUS: recensioni - Casina Morgese

GLI SLOGAN? SPIA DELLA CATTIVA COSCIENZA

La cattiva politica sotto accusa in Katastrofé, l’ultimo libro di Morgese

Di Michele Casella

[su EPolis Bari inweek del 18 settembre 2020]

Mentre la penisola supera con spensieratezza l’estate 2020 e affronta la pandemia da Covid-19 con gioiosa e rinnovata superficialità, arriva nelle librerie il nuovo libro di Waldemaro Morgese “KATASTROFÉ, l’Italietta nel Coronavirus” (Edizioni dal Sud). Un titolo programmatico per una raccolta di testi che l’opinionista di EPolis Bari ha cominciato a comporre fin dagli inizi di febbraio, provando a interpretare ciò che è accaduto nei quattro mesi cruciali della pandemia italiana. Ne abbiamo parlato assieme a lui per capire cosa sta succedendo e se c’è ancora speranza per un popolo perennemente sprovveduto.

D. Il Covid potrebbe rivelarsi un evento educatore? Siamo ancora in tempo?

R. Secondo me potrebbe essere educatore, ma non educherà nessuno purtroppo. Dicono che io su questa questione sia pessimista, credo però di essere – piuttosto – realista: oggi, dopo i quattro mesi “orribili”, questa sensazione mi si rafforza. Cosa sta cambiando? Tutti cercano di tornare “a come prima”!

D. Anche per te il Covid ci racconta che l’uomo è dominante sulla terra per pura alea?

R. C’è un filo di pensiero che accomuna discipline diverse e di cui dò conto nella premessa al volume: l’essere umano è nato per caso e semplicemente per caso, non perché migliore, è divenuto il re della Terra. Si pensa che l’Homo Sapiens sia prevalso perché più intelligente, ma non è così! Questo significa che, in futuro, all’uomo potrebbe sfuggire di mano ciò che egli stesso produce nel campo della scienza e della tecnica, risultandone travolto…

D. Cosa ti preoccupa maggiormente, la strumentalizzazione politica o il negazionismo popolare?

R. Di certo la strumentalizzazione politica. Del resto nei 4 mesi “orribili” una potente macchina mediatica ha creato dal nulla una sorta di improbabile dux!

D. A tuo parere l’Italia continua a soffrire di un individualismo regionale assai marcato? Ci sono soluzioni possibili?

R. La formula centralistica non ha futuro, appartiene al passato. Solo che il decentramento nato con le Regioni 50 anni fa andrebbe revisionato, creando poche Macroregioni. Ma di cosa parlano i nostri politici? Del taglio dei parlamentari: surreale.

D. Una maggiore globalizzazione porta a responsabilità più determinanti?

R. La globalizzazione è ineluttabile. Edgar Morin voleva la “Terra patria”. Ma l’impalcatura istituzionale (e anche costituzionale) della globalizzazione è tutta da costruire, ora c’è solo la messa a fattor comune della finanza. Senza evolvere verso questa consapevolezza la globalizzazione può creare molte disfunzioni, in primo luogo le diseguaglianze e una maggiore rabbia sociale. Ma dove sono gli illuminati che agiscono di conseguenza? Non li vedo.

D. Lo slogan “saremo migliori” è ora diventato una frase canzonatoria, soprattutto online: abbiamo perso a tal punto la fiducia in noi stessi?

R. Questo slogan, come tu dici, è la spia della nostra cattiva coscienza, del fatto appunto che non siamo diventati Italia, siamo ancora Italietta. In Germania il piano pandemico lo hanno sempre aggiornato e poi applicato, noi abbiamo compilato un po’ di carte e lo abbiamo lasciato a dormire per 12 anni. Così abbiamo affrontato lo scoppio dell’infezione a mani nude.

D. Il giudizio che trapela nel tuo libro sull’Unione Europea è abbastanza severo, cosa si doveva aspettare di più?

R. Il coordinamento delle politiche sanitarie, che è mancato totalmente. Anche i cospicui aiuti deliberati quest’anno sono solo il frutto della preoccupazione di perdere un grande mercato delle merci. Gli Stati Uniti d’Europa sono di là da venire, purtroppo

D. Quale normalità dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro?

R. Sul futuro possiamo elaborare scenari, poi ci dobbiamo rimboccare le maniche per adoprarci a far prevalere lo scenario che più desideriamo. Ci può essere una normalità che ingloba i cambiamenti dovuti allo shock o quella che ignora del tutto lo shock. Io però sono un po’ pessimista, perché non vedo ceti politici e intellettuali all’altezza, intesi come massa d’urto (non le singolarità, che ci sono, certo).

 

MA QUESTO VIRUS È DAVVERO UNA…KATASTROFÈ. L’ITALIETTA FATTA CON I «SE»

Waldemaro Morgese e il diario di una crisi

Di Giampaolo Busso

[su La Gazzetta del Mezzogiorno del 9 agosto 2020].

Katastrofè. L’Italietta nel Coronavirus, è il titolo di un libro breve (Edizioni dal Sud, luglio 2020) che raccoglie diciotto articoli scritti da Waldemaro Morgese tra il 21 febbraio ed il 26 giugno dell’anno in corso, lungo le settimane del lockdown e delle diverse fasi di contenimento della epidemia. Questa ultima è la dichiarata protagonista e, al contempo, il soggetto al centro delle riflessioni: come si è diffusa nel contesto della globalizzazione, i suoi impatti di breve periodo, le conseguenze prospettiche delle quali è portatrice sulla salute, sulla economia, sugli stessi criteri di concezione delle vite individuali, dell’etica e della morale pubblica e privata, della convivenza sociale e del rapporto tra l’uomo e la natura.

In greco antico katastrofè indicava il rovesciamento di una situazione, anche di quello che può sembrare l’ordine naturale delle cose. In questa accezione etimologica esprime efficacemente il ribaltamento della usuale quotidianità intervenuto con il regime delle restrizioni. A sua volta, la definizione di Italietta sintetizza, secondo l’autore, l’amara constatazione della pochezza che ha saputo tesaurizzare la nostra Nazione: tanto che è stata capace solo di diventare (o restare) un’Italietta, non di trasformarsi in un’Italia. Il giudizio sulla conduzione della crisi è molto netto e chiaro. Morgese ritiene che vi sia stata una cinica svalutazione degli istituti della democrazia repubblicana e che una potente macchina mediatica abbia concorso a promuovere nell’immaginario collettivo la figura di un improbabile dux e, per altri versi, a rendere i cittadini assuefatti ad una sorveglianza totalitaria basata sull’uso improprio di dati individuali sensibili e sulla diffusione di numeri fasulli. La recentissima desecretazione dei verbali del Comitato tecnico scientifico è destinata ad alimentare ulteriormente polemiche e contrapposizioni di giudizi su questi aspetti così delicati.

Un paio di articoli di Morgese, pur convinto europeista della prima ora, chiamano in causa l’assenza di una strategia europea all’altezza della crisi sanitaria e i ritardi e le incertezze che hanno accompagnato la messa a punto, più che dei primi interventi, degli annunci di quelli che saranno i primi interventi concreti.

La storia e anche la cronaca non si fanno con i «se», tuttavia talvolta essi aiutano a capire come sarebbero potute andare diversamente le cose. Se si fosse intervenuti tempestivamente ed efficacemente sui primi focolai epidemici e sui contesti più esposti (RSA) e se l’attrezzatura territoriale della sanità ed il numero dei posti disponibili nelle terapie intensive non fossero stati devastati da tagli di spesa per circa 30 miliardi di euro negli ultimi otto anni, molto probabilmente il numero degli italiani deceduti (pari allo 0,068% circa della popolazione) sarebbe stato di gran lunga inferiore. Ovviamente c’è anche da chiedersi cosa sarebbe accaduto di più o di meno drammatico se le attività industriali fossero rimaste aperte.

Quello che è successo nei mesi scorsi in Italia non è assolutamente paragonabile alle tragedie sanitarie del passato, che siano le pestilenze descritte da Tucidite e da Manzoni o la «spagnola», eppure può assestare un colpo micidiale alla tenuta non solo economica del Paese.

Cento miliardi di euro provenienti da nuovo debito pubblico e da minore tassazione a sostegno di consumi che continuano a languire, un incremento inevitabile della disoccupazione, una perdita di oltre dieci punti di Prodotto Interno Lordo dei quali almeno un terzo irrecuperabile in quanto riconducibile ad imprese che hanno cessato di esistere o stanno per farlo, rappresentano dati sconvolgenti che gettano ombre pesanti sul futuro delle nuove generazioni quanto, ancora più drammatiche, sul presente. L’italiano di «domani mattina» dovrà affrontare un quadro di questo genere e le implicazioni potranno essere le più diverse su ogni piano.

Il diario di Waldemaro Morgese è una sorta di viaggio tra gli avvenimenti sociali e politici affrontati e vissuti, tra i sentimenti ed i richiami culturali e bibliografici che la solitudine suggeriva in quell’arco di settimane indimenticabili e, speriamo, non destinate a ripetersi.

 

KATASTROFÉ, L’ITALIETTA NEL CORONAVIRUS: IL PAMPHLET DI WALDEMARO MORGESE

L’opuscolo dell’editorialista e scrittore molese analizza, in maniera critica e senza alcuna concessione alla retorica, i vorticosi eventi della politica e della società italiana accaduti nel corso dei quattro drammatici mesi della pandemia.

Mola Libera, 17 agosto 2020 [quotidiano online, www.molalibera.it].

Di Piero Fabris

Leggere i diciotto elzeviri di Waldemaro Morgese raccolti sotto il titolo “Katastrofé – L’Italietta nel Coronavirus” (Edizioni dal Sud. Collana riflessioni 11. Pagine n° 52, € 8,00) significa ritrovarsi davanti a un mosaico dai tasselli vivaci.

Trattasi di un pamphlet che ci consente di avere delle visioni più chiare e di considerare i fatti da angolazioni diverse o, se vogliamo, con risonanze non schierate che inquadrano certe realtà volutamente opacizzate dai manipolatori dell’informazione, per i quali il trambusto susseguirsi dei fatti e il brumoso modo di affrontarli (i rallentamenti nel fosco come un atto dovuto alla giustizia) è uno strumento collaudato per la monopolizzazione delle notizie.

L’autore di queste pagine, nel presentare le azioni degli uomini, protagonisti della direzione della cosa pubblica, sottolinea e  accenta la presunzione di dominio con acutezza raffinata, cosicché Hybris e l’idea contagiosa dell’uomo di essere dominatore del pianeta, viene sottolineata con un’ironia sottile che ci schiude, retoricamente al dubbio sull’operare, sulla competenza, sull’onestà di alcuni addetti alla promozione del bene comune, i quali sembrano cadere, sempre in piedi, dalle sovrastanti nubi dell’onniscienza, per quanto riguarda il pianeta delle catastrofi.

La loro sensibilità è infatti straziata dalla ribellione della “terra matrigna”, che colpisce i loro animi illibati per la dolorosa perdita di quanti furono vittime del caso e mai della mancata ispezione delle infrastrutture volute e sognate per velocizzare scambi e collegamenti; si sentono profondamente uniti al lutto, per i disastri di ogni genere, per i quali i cinque minuti di “silenzio/raccoglimento” sono un obbligo istituzionale!

Ma Waldemaro Morgese che già aveva consegnato alle stampe nel mese di luglio 2019 un libricino di venti articoli pubblicati su “EPolis Bari inweek” e “Gazzetta del Mezzogiorno”, mostra il suo valore confermandosi osservatore privilegiato, utilizzando la sua penna per denunciare quella cultura effimera, dove i signori degli “eventismi” spazzano la vera cultura sostituendola con la spettacolarizzazione: tuoni senza pioggia, per i quali tutti accorrono, vittime incoscienti di quell’attimo di protagonismo di piazza dove i riflettori illuminano l’apparire.

L’autore smascherando con eleganza e ridicolizzando l’evidente mancanza di contenuti di certe vetrine dell’esibizionismo, che è spreco di soldi pubblici, sostituisce all’arenarsi in spelonche dell’opportunismo un disegno di irrigazione culturale che restituisce alla mente ossigeno per la creatività, riflesso d’identità e conoscenze che rendono florido il giardino dello scibile grazie al quale è possibile guardare al futuro con lungimiranza.

 

L’«ITALIETTA» E LA CATASTROFE DEL CORONAVIRUS

Il diario del lockdown di Waldemaro Morgese, alla ricerca di una nuova ecologia.

“Corriere del Mezzogiorno - Puglia”, 6 settembre 2020.

di Maria Villani (nome “de plume” di Mary Sellani)

Di Waldemaro Morgese, saggista, editorialista, scrittore, è uscito nel mese di luglio Katastrofé – L’Italietta nel Coronavirus (Edizioni dal Sud, pp. 52, euro 8), un libro breve che raccoglie alcuni suoi articoli pubblicati sulla rivista EPolis Bari in week tra il 21 febbraio e il 26 giugno 2020, lungo tutto il percorso di lockdown dovuto all’epidemia da Coronavirus. È una sorta di “diario” della fase più acuta dell’infezione arrivata nel nostro Paese in cui sfilano alcune tematiche che Morgese sottopone ad una severa riflessione politica e culturale: dalla diffusione del virus nel contesto della globalizzazione, alle conseguenze negative sulla salute, sull’economia, sulla scuola, e sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente.

Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa che ha ribaltato la “normale” quotidianità della nostra vita con il regime delle restrizioni e delle prescrizioni sanitarie: praticamente uno shock, o, come dice l’autore, una katastrofé, la quale, d’altra parte, ha messo ancor più in evidenza la debolezza politica, le mancanze, i ritardi dell’Italia (definita appunto Italietta), non assurta ancora a dignità di Nazione. Dal tenore degli articoli si coglie pertanto il pessimismo di fondo dell’autore anche rispetto alla conduzione di Governo e Regioni proprio nei mesi cruciali della pandemia; allo stesso tempo egli coglie l’assenza di una strategia europea all’altezza della crisi sanitaria non essendo essa stata capace d’intervenire tempestivamente ed efficacemente sui primi focolai epidemici.

Tuttavia, se non altro, questa emergenza ha avuto il merito di rimettere in primo piano il tema dell’urgenza di riconoscere seriamente la più grande questione della nostra epoca: la salvezza del nostro Pianeta. Si tratta infatti di un tema complesso che interseca ogni aspetto delle nostre vite e che richiederebbe di essere raccontato in modo più comprensibile di quanto fatto finora, di spiegare, per esempio, più approfonditamente il perché del riscaldamento globale, come funziona e cosa determina nel mondo naturale, e quanto esso dipende effettivamente dal comportamento umano. Perché se questa relazione esiste, è arrivato allora il tempo di prenderne finalmente coscienza e di attuare un cambiamento radicale del nostro tipo di sviluppo. Il quale, con la globalizzazione, ovvero con l’occidentalizzazione del sistema capitalistico, ha portato ad un aumento delle diseguaglianze sociali, ad una forte polarizzazione tra ricchezza e povertà, e ad una finanziarizzazione dell’economia. E cercare invece di attuare quell’«ecologia integrale» tra umanità e creato indicata dallo stesso Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sì del 2015. Se la pandemia ha reso grave la rottura tra noi e il creato, si tratta ora – come auspicato nell’enciclica – di ricostruire quella nativa armonia.

Un aspetto di questo tentativo di ristabilire l’armonia originaria la cita Morgese nell’articolo “La campagna è il futuro?” in cui riferisce di una mostra ospitata nel febbraio scorso al Guggenheim Museum di New York, dal titolo “Countryside. The future”, ideata dall’architetto olandese Rem Koolhaas, basata sull’idea che le aree rurali possano essere un’importante soluzione ai problemi del presente; e che dunque, la montante urbanizzazione non sia affatto un fenomeno ineluttabile. Tra arditezze varie e dati satellitari captati in tempo reale nell’elicoide del Museo, la mostra espone un trattore e un campo sperimentale di pomodori maturati con i Led e coltivati da un esperto di idroponica, David Litvin, ribattezzato dai newyorkesi Tomato Man.

 

KATASTROFÉ. L’ITALIETTA NEL CORONAVIRUS

Severe riflessioni di Waldemaro Morgese durante il lockdown

Di Vitangelo Magnifico

[su Città Nostra n. 199 del settembre 2020]

Quattro mesi sono lunghi da passare standosene chiusi in casa ad ascoltare le notizie sull’epidemia che avanza e che ci vede, come italiani, protagonisti di un’esperienza che era difficile prevedere solo poche settimane prima, quando tutto scorreva nella routine quotidiana e con abitudini consolidate in decenni di pace. “Siamo in guerra” si sentiva spesso dire; ma non c’erano macerie e cadaveri nelle strade. Il senso della morte passava con i comunicati giornalieri della Protezione Civile e le immagini televisive delle chiese piene di bare e delle colonne di camion militari che le trasportavano in cimiteri che avevano ancora posto per accoglierle. C’era chi si dava coraggio cantando dalle finestre e chi faceva tesoro delle nuove tecnologie per aggregarsi a distanza; nascevano cori, orchestre intere mentre industrie, negozi, bar, ristoranti, cinema, teatri, stadi, scuole, università, chiese e perfino ospedali invasi dal virus chiudevano con un crescendo di frustrazione e preoccupazione per il domani. Divenne proibito perfino uscire di casa; l’unica occasione per farlo era andare a comprare qualcosa da mangiare, ma invece della tessera annonaria si doveva portare un’autocertificazione! Si rischiava una multa salata anche per andare a lavorare! Anche le due Camere del Parlamento si svuotarono e i pochi Onorevoli presenti a rappresentare il tutto sembravano larve impaurite. Ogni azione venne regolata dai Decreti emanati in successione dal Presidente del Consiglio dei Ministri nelle diverse fasi della pandemia dopo aver mediato una riottosa compagine governativa e chi “non voleva chiudere”.

Dopo, gli italiani scoprirono di essere stati più bravi degli altri popoli a combattere un nemico invisibile, un coronavirus, che, stando agli esperti, era passato da una specie di pipistrello all’uomo. E andò a ruba un libro pubblicato diversi anni prima in America che aveva previsto tutto! Nonostante gli avvertimenti, al suo arrivo il virus trovò una strada spianata dall’assenza di un piano anti-pandemico; e gli italiani si trovarono senza mascherine e senza tamponi e i sanitari perfino senza gli ausili necessari per evitare le contaminazioni. Passeranno alla storia le immagini degli infermieri avvolti nelle buste della spazzatura! Una vera e propria catastrofe!

Waldemaro Morgese non era alla finestra a cantare e nemmeno seduto davanti ad un PC a chattare o contestare fake news, ma meditava da par suo e appuntava le sue riflessioni che settimanalmente affidava a EPolis Bari in week per la pubblicazione. I diciotto brevi articoli pubblicati dal 21 febbraio al 26 giugno sono stati, in seguito, raccolti in Katastrofé: L’Italietta nel Coronavirus (Edizioni dal Sud, Bari; pp. 52; € 8,00).

Già in premessa Morgese si chiede: Insomma: il Covid-19 dobbiamo considerarlo un evento epocale o un incidente di percorso? Un rivolgimento radicale oppure un semplice sconvolgimento che – superata la fase del suo drammatico svolgersi – sarà progressivamente riassorbito non avendo in sé la forza di poter ostacolare il ritorno al “come prima”? E da quel rigoroso osservatore evidenzia antichi vizi italici utilizzati per mascherare la pretesa ineluttabilità di certe decisioni, da italietta che non riesce a diventare Italia anche in una drammatica situazione. Lo irrita un pessimo governo e l’atteggiamento del premier, che arriva a definire, più volte, Fregoli (Leopoldo Fregoli era un attore e regista trasformista, dal quale il termine fregolismo) che gestisce l’emergenza a colpi di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), che per Waldemaro sarebbero una “furba impalcatura decisionale per sterilizzare il Parlamento e prendersi tutto il proscenio” come un novello DUX, al quale si ricorre nei periodi bui.

Non sono molto d’accordo su queste preoccupazioni. Ritengo che la nostra democrazia sia abbastanza forte per consentire certe forzature. La vigilanza del Presidente Mattarella e di tutti gli organi istituzionali, compreso il Parlamento (che non ci fa una bella figura!) e i Sindacati sono sufficiente garanzie. Per Waldemaro sono, comunque, segnali pericolosi; egli vorrebbe, invece, la responsabilizzazione dei cittadini che passa attraverso la fiducia e la trasparente informazione, anche per poter gestire il dopo emergenza. Le avventate uscite di certi Ministri, i comportamenti di alcuni Presidenti di Regioni (pomposamente chiamati Governatori, che approfittano del momento per chiedere maggiori autonomie!), le posizioni delle opposizioni, interessate solo a far cadere il Governo e andare alle elezioni con la speranza di vincerle, e gli scienziati che litigano e si offendono in diretta televisiva non offrono uno spettacolo confortante!

E che dire degli Italiani con la memoria corta che hanno rimosso subito le colonne di bare e corrono in vacanza e a ballare appena si passa alla fase tre senza un minimo di precauzione e fornendo numeri di telefono errati per non essere rintracciati in caso di positività al COvid-19! Chi diceva che ogni popolo ha il Governo che si merita? Eppure, grazie a quelli bravi e seri, di meriti gli Italiani ne hanno accumulato nei quattro mesi di lockdown. Ma l’italietta è più forte dell’Italia. Il timore di Waldemaro Morgese è che a vincere sarà come al solito la prima, per tornare alle ammucchiate pre-covid e magari approfittare per accaparrarsi i soldi che l’Unione Europea ci darà e ci presterà per riparare i danni del coronavirus che si sono aggiunti a quelli pregressi. A ben vedere, Waldemaro Morgese si preoccupa più dei danni morali; e non si può che essere d’accordo.

Per chiudere, permettetemi una considerazione di tipo professionale. Nel quattordicesimo articolo dal titolo “La campagna è il futuro?”, stimolato da una mostra a New York (al Guggenheim Museum, allestita ma mai aperta al pubblico per la pandemia), Morgese ritiene “che le aree rurali possano essere un’importante soluzione ai problemi del presente e che, dunque, la montante urbanizzazione non sia affatto un fenomeno ineluttabile”. Nella mostra c’è un campo sperimentale di pomodori maturati con i LED gestito da un solitario esperto di coltivazione idroponica che i newyorkesi hanno battezzato Tomato Man. Morgese, alla fine dell’articolo si chiede: “Dove sono i nostri Tomato Man?”. La risposta, facile, è: alla periferia di Mola, nell’Azienda Sperimentale “La Noria” del CNR. Sono Ricercatori pluripremiati a livello internazionale per le loro ricerche innovative sulle coltivazioni idroponiche. È probabile che il Tomato Man newyorkese utilizzi tecniche scoperte a Mola. Ma nessuno lo sa; perché nessuno se ne cura, perché la nostra agricoltura deve essere quella “bella” dei decenni passati non quella progredita americana! Forse i tomato men, nostri, innovativi, non ci piacciono!

 

commenti (0)

LA RETE DEI MUSEI IN PUGLIA

LA RETE DEI MUSEI IN PUGLIA - Casina Morgese

I ritardi della cultura al Sud. La realtà aumentata, lo storytelling: esistono in altre Regioni

IL DIO DELLA LENTEZZA È NEI MUSEI PUGLIESI

Waldemaro Morgese: la tecnologia assente

In questo articolo Waldemaro Morgese chiede maggiore innovazione nei musei del Sud

[La Gazzetta del Mezzogiorno, 18 settembre 2020, p. 15].

Di Waldemaro Morgese

Siamo nel XXI secolo e ragionando di musei non si può evitare di accennare alla «realtà aumentata», di cui un visitatore del museo può giovarsi utilizzando i cosiddetti vearable devices, ad esempio i visori e gli occhiali intelligenti. Inquadrando un referto, si aprono al visitatore gli overlays, cioè le informazioni aggiuntive sotto forma di testi, immagini, suoni, parlati, statici o dinamici che siano. In sostanza si tratta di narrazioni (storytelling) virtuali: se ben costruite, sono esperienze sensoriali di eccezionale fascino e profitto informativo.

Dove sono in Puglia? Purtroppo nei musei pugliesi non albergano gli iper-mondi. Al visitatore si squaderna una realtà sconsolatamente «uni-versa», fatta di referti materiali offerti al godimento visuale, ma di «multi-versi» non c’è quasi mai traccia. A Bologna prospera l’Integrated Research Team – Alma Heritage Science dell’Università Alma Mater: si tratta di imaging multispettrale, tomografia computerizzata 3D, rendering digitale, radiografia digitale… In Puglia non vi è nulla di simile.

Poiché sono stato anche un bibliotecario, sono solito conservare gelosamente i libri che posseggo. Ne ho preso uno dai miei scaffali: I musei della Puglia-Guida illustrata, curato dall’Assessorato alla Cultura della Regione Puglia nel 1981. Censisce una novantina di strutture, «musei» artistici, archeologici, etnoantropologici, storici e naturalistici. Confrontando quella situazione con l’attuale, anche giovandomi di una ricerca di due studiose pubblicata sulla rivista dell’Università di Macerata Il Capitale Culturale (n. 6 del 2013), posso sostenere tranquillamente che la situazione non è cambiata granché dal 1981. Per cui la frase attribuita a Peter Handke, «Perché non ci si è mai inventati un dio della lentezza?», che ho appreso grazie a Byung-Chul Han, un filosofo allievo di Peter Sloterdijk, in Puglia riguardo ai musei non vale: qui il dio della lentezza non solo esiste ma opera efficacemente!

Fuor di celia.

Ci lasciamo un po’ distrarre dalle sbandierate procedure per nominare i direttori dei musei (tredici nomine con giurie specchiate per i musei statali proprio in questi giorni, sulla base di un bando internazionale emesso a gennaio, che si aggiungono ad altre ventisette); ci lasciamo fuorviare anche dalle statistiche relative alle presenze totalizzate da ciascun museo (dato che di per sé non significa granché); ci infervoriamo per esaltare o svalutare l’intervento di testimonial-influencer (come accaduto al MarTa di Taranto con Chiara Ferragni), del tutto ininfluente. Ma sulla questione fondamentale tutti tacciono (forse per carità di patria?). Che è molto semplice: il sistema museale pugliese è arretrato, ripiegato su se stesso, poco aperto alla contemporaneità, insomma statico, restio alle innovazioni e alle sperimentazioni. La riprova? Manca in Puglia un grande museo del clima; manca un museo degno di questo nome sull’emigrazione nel corso dell’Otto-Novecento; manca un grande museo dell’acqua (perché non insediarlo nel Palazzo Cambellotti di Bari, trasferendo altrove gli uffici Aqp?); manca un vero museo della scienza e della tecnica o un grande museo della Terra. Presenze necessarie per declinare in termini contemporanei l’identità regionale e a questo proposito è indubbio che il processo strategico di nuova implementazione del sistema museale non può che essere in capo ai poteri regionali con l’obiettivo di staccarlo dalle sirene dell’economia turistica e incardinarlo nella filiera del Knowledge (l’istruzione, il sapere, la formazione, la cultura). Infine pensiamo alla rete degli Ecomusei, tramiti formidabili con le Comunità di riferimento: ultimi nati in Puglia, sono stati trascurati in questi anni e attendono un rilancio.

commenti (0)

FRANCA PESCE, IN MEMORIAM

FRANCA PESCE, IN MEMORIAM - Casina Morgese

FRANCA PESCE, IN MEMORIAM

Il 14 agosto 2020 Franca (Delfino) Pesce è morta, all’età di 97 anni. Franca era nata a New York il 27 febbraio 1923, figlia di Ottone Pesce (fratello di Piero Delfino Pesce), musicista, compositore, direttore d’orchestra e di Carolina Palmieri, in arte Lina Palmieri, soprano leggero. Ottone e Lina si erano conosciuti sul palcoscenico di un teatro lirico messicano, durante una tournée, e si erano sposati in New York il 3 luglio 1922: testimoni di nozze Fiorello La Guardia futuro sindaco di New York per tre mandati consecutivi dal 1933 e Arturo Tomaiuoli, noto poeta e librettista. La sorella di Franca, Maria, non più fra noi da tempo, è stata scrittrice nonché insegnante nei Licei Classici romani; aveva sposato il poeta, attore e docente di tecniche sceniche Argo Suglia, di origini molesi. Tornata stabilmente in Italia Franca visse quasi un anno in Milano per le attività musicali del padre Ottone e durante questo soggiorno lo scultore Bruno Calvani, amico di Ottone, scolpì una sua testina oggi dispersa. Si stabilì quindi definitivamente a Roma con la sua famiglia, in una casa del Quartiere “Africano” sita in via Benadir n. 8 e si iscrisse il 21 dicembre 1936 alla “Terza Ginnasiale” presso il Regio Ginnasio parificato S. Angela Merìci (istituito nel 1930 nel Quartiere Nomentano), che faceva riferimento alla “pedagogista” ante litteram e fondatrice delle Orsoline, poi santa, Angela Merìci. Presso l’Istituto delle Orsoline frequentò anche il nuovo Liceo Classico maturandosi il 5 giugno 1941. Negli anni trascorsi nell’Istituto S. Angela Merìci fece amicizia con Giulietta Masina (nata nel 1921), anch’essa alunna presso le Orsoline e presumibilmente conobbe il giovane Federico Fellini che allora a Giulietta faceva la corte. Franca perse la cittadinanza statunitense perché alla data dell’entrata in guerra dell’Italia non fece ritorno negli USA, pur avendo il Console statunitense a Napoli offertole la possibilità di rientrarvi, insieme alla sorella Maria, a bordo di un sommergibile. Sul finire del 1944 sposò Giuseppe Morgese (nato nel 1916, morto nel 2005), successivamente capo degli Uffici Legale e Personale dell’Ente di Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise ed ebbe con lui due figli: Waldemaro (nato nel 1945) e Maria Carla (nata nel 1949). Nell’intervallo fra la nascita dei due figli Franca si laureò il 15 luglio 1947 nell’Università di Roma “La Sapienza” in Lettere, discutendo con l’illustre Maestro Luigi Ronga una tesi in Storia della musica sul seguente argomento: “Albori dell’opera buffa in Roma: dal ‘Sant’Alessio’ all’opera ‘Dal male il bene’ – 1634-1653. Un librettista e quattro compositori”. In questa tesi, fra l’altro, si può leggere: “Non si può dimenticare che lo sviluppo rigoglioso del Teatro Barberini comincia nel ’37, da quando, cioè, il melodramma religioso si permise venisse recitato nei conventi e quindi non c’era più nemmeno la limitazione di pretesto del soggetto religioso”. Il gioco della sorte ha voluto – lo noto per inciso – che il figlio Waldemaro, dopo essersi iscritto a “La Sapienza” nel 1966, abbia frequentato e superato due esami in Storia della musica proprio con l’ormai anziano Luigi Ronga! Madre poco meno che trentenne Franca volle recarsi con i due figli bambinelli nel rinomato studio fotografico Venturini (in via Veneto a Roma), il cui “direttore artistico” era Alberto Parsi, per lo scatto di alcuni ritratti che fermassero nel tempo la sua bellezza giovanile e quella fanciullesca dei due figli: anche di questo dobbiamo esserle grati. Trasferitasi a Mola di Bari con il marito, Franca si iscrisse al quarto anno (d’ufficio) per il conseguimento della Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari con numero di matricola 571. Successivamente ha intrapreso una carriera di educatrice, insegnando per decine e decine di anni materie letterarie ma anche lingua francese e inglese. Ha impartito anche molte lezioni private nel corso di numerosi anni (persino gratuitamente per studenti senza possibilità economiche ma meritevoli). Fin nella sua veneranda età era spesso riconosciuta per le strade di Mola di Bari e lodata da suoi vecchi alunni, ormai non più giovani. Ha lasciato ai due figli un biglietto autografo su cui ha espresso (e i figli hanno eseguito) la volontà che sulla sua lastra tombale fosse scritto: “Persona speciale”. Non perché lei si credesse tale, ma semplicemente perché ricordava lucidamente anche in età anziana le tante volte in cui suo papà Ottone, quando era bimbetta, le diceva affettuosamente “sei una persona speciale”. Quindi con questa frase in realtà Franca ha voluto ricordare, nell’ora estrema, la figura del padre.

 

commenti (0)