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03-07-2023: PRESENTATO A MOLA "MATERNE NOTTI DI LUNA" DI W. MORGESE

03-07-2023: PRESENTATO A MOLA  "MATERNE NOTTI DI LUNA" DI W. MORGESE - Casina Morgese

Il 3 luglio 2023, alle ore 20.30, presso il Palazzo Roberti di Mola di Bari è stato presentato il romanzo di Waldemaro Morgese "MATERNE NOTTI DI LUNA", pubblicato dall'editore napoletano Homo Scrivens. Hanno presentato l'opera la scrittrice Carmen Mari e lo storico Nicola Fanizza. La presentazione si è svolta quale serata inaugurale del  Primo "Ciclo d'incontri e conversazione con l'autore" promosso da Giuseppe Aversa e Annalisa Boni di Teatro Forma. Ad inizio della presentazione, che ha visto la partecipazione di un folto pubblico, è stato proiettato un breve audio/video di Giuseppe Aversa sul romanzo. Brani dell'opera sono stati letti dall'attrice Aurora Attorre. L'Autore ha risposto ad alcune domande del pubblico.

Audio/video di Giuseppe Aversa
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W.MORGESE - MATERNE NOTTI DI LUNA/recensioni

W.MORGESE - MATERNE NOTTI DI LUNA/recensioni - Casina Morgese

Giulia Poli Disanto, Vito Marangelli, Mauro Giancaspro, Daniele Maria Pegorari, Pasquale Pellegrini, Andrea G. Laterza, Carmine Tedeschi, Giusy Carminucci.

 

Un viaggio alla ricerca del tempo perduto
Materne notti di luna di Waldemaro Morgese

[recensione di Giulia Poli Disanto]

Ancora una volta il Tempo ritorna prepotente nell’ultima opera di Waldemaro
Morgese: Materne notti di luna, Homo Scrivens ed. L’Autore affronta uno dei temi
più sentiti dall’essere umano, la soggettività del tempo, un’ossessione che diventa un
personaggio cruciale all’interno della trama.
Il breve dialogo tra Vladimiro ed Estragone in esergo, tratto dal testo teatrale di
Samuel Beckett “Aspettando Godot”, è un primo possibile indizio che il Nostro offre
al lettore. Il Tempo come nel testo teatrale potrebbe essere interpretato attesa, vuoto
da riempire, paesaggio immobile e senza tempo, oppure “filo rosso che lega, in modo
virtuale, passato, presente e futuro”, come ho già segnalato ne Il tempo uguale, Les
Flâneurs ed., altra importante opera dell’Autore.
È bene precisare che Materne notti di luna è un’opera complessa. Una lettura
che richiede impegno e che non consente distrazioni. Un genere letterario suscettibile
di mescolanze tra reinterpretazioni storiche e mitologiche oltre a concetti filosofici.
Uno stratagemma, quello dell’Autore, che permette flessibilità interpretativa e
narrativa a sottolineare, con franchezza, come l’uomo sia incapace di ricordare…
A mio avviso, è un romanzo che va assaporato lentamente per godere delle
infinite e raffinate sfumature che la lettura propone: vicende storiche recuperate
attraverso i dialoghi di Otto ed Elyse, i due protagonisti, che utilizzano il tempo come
un ascensore in sospeso fra ricordi reali, mitologiche fantasie e l’insistente pensiero
della vita e della morte.
Tutto gioca intorno Alla ricerca del tempo perduto, per dirla con Marcel
Proust, alle emozioni del momento, ai bagliori che il Mito suggerisce, al sogno che
aggancia le Storie del passato per riportarle, nella loro lucidità, ad un presente che
tende a dimenticare. I due protagonisti, che l’Autore definisce “sovrumani cercatori”,
hanno un ruolo preciso: quello di attraversare il tempo e ridare vita al passato con un
lungo viaggio foriero di suggestivi incontri.
Uno dei mille interrogativi esistenziali dell’uomo è la fatidica domanda: il
Tempo esiste? Il tempo non è qualcosa che si tocca o si vede. Certo lo percepiamo
attraverso le stagioni, secondo i segnali che la natura ci trasmette. Il passato non è più
e il futuro non esiste; viviamo solo il presente che in sostanza è quella linea di
demarcazione che divide il passato dal futuro. Lo stesso Albert Einstein, con la teoria
della relatività, ci rivela che il tempo non è ciò che abbiamo da sempre immaginato,
ma è l’intervallo tra due eventi.
La particolarità di questo romanzo sta proprio nello stravolgere la temporalità
di ogni racconto, con narrazioni profondamente non lineari e reversibili. I voli
pindarici da un luogo all’altro e da un’epoca all’altra permettono ai due personaggi di

spaziare nel tempo a proprio piacimento. l’Autore afferma per bocca di Elyse: “Io
immagino che la magia sia anche onnipotenza del tempo, nel senso della possibilità
di ripercorrerlo in avanti e all’indietro”…
Di Otto ed Elyse non conosciamo nulla; essi sono senza età e abitano su una
imprecisata collina e il loro continuo viaggiare, come scrive Mauro Giancaspro nella
postfazione, è una “disperata ricerca di quello che resta della vita della madre terra,
che sembra giunta alla sua ultima fase di sopravvivenza…”.
C’è una tenera descrizione che allude alla Hill, la non definita Collina a cui
l’Autore è legato: “I solitari ciliegio e melograno sussultano e grondano. Le gocce
scendono veloci lungo le foglie: splendenti quelle del ciliegio, matte quelle del
melograno. Si spande anche l’intenso effluvio del glicine azzurro, esteso a perdita
d’occhio fino a lambire le roselline bianche centenarie. … Ho dinanzi agli occhi il
bel fico nato selvatico…” Chi è pratico del territorio riconosce l’amata Brenca, la Hill
dell’entroterra molese.
In Materne notti di luna, l’Autore costruisce una tecnica narrativa moderna,
soprattutto rispetto alla tradizione del romanzo italiano. Che i dialoghi siano inseriti
all’interno di una commedia umana o in “una sorta di genere storico fantastico”,
come Waldemaro Morgese afferma, dove l’illogico e il surreale si contendono la
scena, poco importa. Ciò che conta, invece, è la narrazione sempre in bilico tra
passato e futuro con un lettore che si ritrova immerso in un mondo dai risvolti
psicologici e molto lontano dal modo tradizionale di raccontare.
E il tempo, allora? Qui nel romanzo, a mio avviso, è un tempo frantumato. Per
dirla con Sant’Agostino, il tempo non è null’altro che la dimensione dell’anima
poiché il tempo esiste, ma esiste per un’anima. È l’anima che rimette insieme i cocci
del tempo…

 

 

[recensione di Vito Marangelli, pubblicata sul blog "Il Periscopio"]

  Nel parlare di questo ultimo libro di Morgese, che ho letto integralmente nei primi capitoli e scorso con una certa rapidità per il resto, sono tentato di partire da una sintesi finale e di aggiungere successivamente alcune prime considerazioni più analitiche, non da critico ma da semplice lettore.

Più che un romanzo vero e proprio lo definirei un viaggio ‘archeosofico’ di grande erudizione con, aggiungerei scherzosamente, qualche morto di troppo.
Il viaggio si svolge in luoghi e tempi molteplici e vede i due personaggi, il maschile Otto e il femminile Elyse, dialogare in talora estese forme di lecturing su temi storici, filosofici, esistenzialistici e anche fantascientifici. Per archesofico intendo la commistione, peraltro ben riuscita, di nozioni storico-archeologiche e temi filosofici talora sconfinanti verso dimensioni extra-razionali. Mi sembra si possa dire che il libro sia la naturale continuazione di opere precedenti di Morgese con temi autobiografici e l’ormai costante richiamo a figure di uomini del passato con i quali l’autore ha la capacità di dialogare e mantenere un rapporto profondo. Alcuni passaggi sono intensamente poetici, specialmente nei capitoli iniziali. Oltre la Storia, vi sono anche capitoli che trattano la contemporaneità e il futuro immaginabile, come il tema del transumanesimo.
Nel viaggio fantastico mi sono ritrovato anche in luoghi a me ben noti, come il citato Tempio di Iside e Serapide all’incrocio tra la via Merulana e Labicana, dove è ora collocata la Basilica dei Santi Pietro e Marcellino al Laterano che la mia famiglia frequenta con grande assiduità quando siamo a Roma.
La Summa del pensiero di Waldemaro Morgese, declinata in maniera eclettica, ingloba una serie estesissima di nozioni ed esperienze che probabilmente avrebbero meritato al libro il titolo originariamente immaginato dall’autore (“Epopea”). Ne consiglio la lettura centellinandolo per assaporarne le diverse suggestioni e i diversi registri.
 

 

 

Una lettura di Materne Notti di Luna

[recensione di Mauro Giancaspro, pubblicata in calce al romanzo]

 

              Materne notti di luna è un diario di viaggio in luoghi visitati e descritti anche attraverso la storia che essi documentano e testimoniano, un viaggio che a tratti appare immaginario, più che cammino e spostamento fisico, movimento della mente e del cuore, spesso ricorrente nel corso di lunghi colloqui tra Otto ed Elyse.

 Otto ed Elyse, unici attori della vicenda narrata, condividono e si scambiano incessantemente suggestioni e sensazioni, certezze e dubbi, timori e speranze, confessando esperienze passate, possibili progetti futuri e passioni. Tra incomprensioni momentanee e successive intese, vivono   l’ossessionante convinzione dell’esistenza di  un  possibile e indefinito aldilà con   l’inquietante e incessante  volo del  pensiero  a un mondo parallelo al nostro, appena intravisto dal lavorio  raziocinante dell’intelletto, ma  avvertito con certezza  dai sensi.  

 Materne notti di luna è anche viaggio fatto di mille escursioni tra libri e ricordi di lettura, in cui riaffiora la memoria di assidue frequentazioni con gli autori più amati, contaminata spesso dai sintomi di inguaribili passioni bibliologiche, con fugaci miraggi mnemonici di meraviglie manoscritte o stampate, perfino di incisioni e di illustrazioni incontrate  nel tempo sfogliando antiche  pagine.     

            Waldemaro Morgese, nei panni di Otto, non riesce a svincolarsi dalla sua appassionata e assidua complicità coi libri e spesso si lascia travolgere, travolgendo anche il lettore, da un flusso inarrestabile di scrittura velocissima, mozzafiato, incalzante e paratattica, accostando, con meravigliosa disinvoltura, autori distantissimi nel tempo come Aubrey Beardsley e Ludovico Ariosto, George Byron e Alfredo Pansini. E nell’alluvione tumultuosa dei ricordi, degli stimoli, delle sensazioni che invadono la sua prosa, fluisce anche, quasi in sottofondo, l’eco della musica cui sono stati dedicati ascolto, attenzione, cuore e sogno: quasi una colonna sonora diluita in una convulsa corrente evocativa che avvicina, con invidiabile serenità, musicisti che non hanno mai condiviso niente: come, tra i tanti, Eric Clapton e Richard Clayderman. Il tutto all’insegna dell’incontenibile libertà di sentimento e di espressione di chi esercita, nel piacere della lettura e dell’ascolto,  il diritto di godersi, senza condizionamenti eruditi  e senza legacci critici, il cosmo delle proprie predilezioni.    

È soprattutto un viaggio, quello di Otto ed Elyse, alla disperata ricerca di quello che resta della vita della madre terra, che sembra giunta alla sua ultima fase di sopravvivenza, insidiata da un’esiziale glaciazione, perché progressivamente abbandonata dalla forza energizzante di un sole ormai privo di forza.

Il viaggio, la poesia epica greca è stata la prima a insegnarcelo, ha  quasi sempre un nostos, un ritorno. Ulisse alla fine, dopo mirabolanti peripezie, avventure e disavventure, resistendo alle lusinghe di Circe prima e di Calipso dopo che vorrebbero trattenerlo, torna nella sua Itaca. Noi giovanissimi studenti, infiammati di curiosità e di entusiasmo da un’indimenticabile insegnante, gioimmo davvero al racconto di Ulisse che, tornato a casa, fa strage dei Proci. Poi scoprimmo, più grandicelli, un altro Ulisse, che ci affascinò con assai  maggiore trasporto: quello dantesco che, per seguire con i suoi compagni virtute e canoscenza, viola il confine delle Colonne d’Ercole imposto  dagli dei agli uomini e si lancia con la sua fragile imbarcazione nel folle e fatale volo verso l’ignoto.

Inquietante il  viaggio di Elyse e di Otto, intrapreso con l’angosciante consapevolezza  che stia per spegnersi il canto della nostra  terra, ma  anche, ad un tempo,  con la speranza che ci  sia  un altro mondo vivibile e abitabile, il cui accesso è sconosciuto e le cui porte, anche se mai dovessero essere in  qualche modo trovate, resterebbero sbarrate perché nessuno sembra in possesso  delle chiavi, dell’accorgimento, del sortilegio,   o  della formula la magica  per poterle aprire.

  Oppure, chissà (i due viaggiatori sembrano domandarselo ogni giorno), in questo mondo altro e parallelo, posto ben oltre le capacità creative della nostra immaginazione, ci si potrà addentrare forse nel corso di un'altra esistenza  solo se sarà davvero possibile – come escluderla? – una reincarnazione.

Otto ed Elyse vivono in simbiosi con la madre terra, ne ascoltano il canto, ne captano perfino il respiro e l’energia. Seguono con curiosità i segni di vitalità che restano  del creato. S’incantano nell’osservare l’operosità degli insetti.  Adorano vagare sotto  il sole splendente o stendersi alla  sua luce nudi per meglio godere del contatto di quei raggi col proprio corpo. S’ inebriano,  puntando gli occhi verso la linea dell’orizzonte, dell’ abbacinante  splendore di un crepuscolo infuocato o del riposante e materno chiarore lunare. Vegliano nella notte spesso solo per sorprendere il sopraggiungere dell’alba e inspirarne l’odore soprattutto  quando essa è irrorata dalla pioggia. Potrebbero definirsi esseri silvani, come i due innamorati sorpresi dalla pioggia nel dannunziano pineto. Potrebbero essere solo apparentemente umani, quasi demoni pagani,  che degli umani hanno solo le sembianze, o  evanescenti creature un po’ chimeriche e un po’ sulfuree, tanta è la loro capacità di ascoltare, con la stessa evidenza dei battiti cardiaci, l’ansimare pericoloso di un vulcano. 

 Oltre il  loro nome non sappiamo niente: se sono belli o brutti, di che vivono, che lavoro fanno, qual è la loro età.

La scrittura del nostro autore, infatti, si sviluppa su due diversi registri, che quasi si contrappuntano  con due differenti velocità, in un’alternanza tra descrizione meticolosa e minuziosa, narrativa e realistica da un lato, e pallida allusione sfumata e rarefatta dall’altro. 

Dalla Calabria, alla Basilicata, dal Cilento a Napoli, dalla Campania alla Puglia, fino a Roma e, ancora più a nord,  a Lugano, le tappe del viaggio sono raccontate  con una vera e propria libido illustrativa, che si sofferma anche sui particolari più nascosti e secretati nelle pieghe della natura. Poi improvvisamente interviene un’evanescenza narrativa, a tratti ellittica e sincopata: come accade, oltre che nel tratteggio dei protagonisti, nella raffigurazione di una non  identificabile hill, la collina sulla cui sommità essi vivono e  della quale si sa solo che è affacciata sul mare.

E allora, forte del diritto inalienabile di andare con la  fantasia anche oltre i confini della scrittura, il lettore sospetta che l’autore gli nasconda volutamente l’età di Otto e di Elyse, in modo che  egli possa sentirsi loro coetaneo e più convintamente partecipe  delle loro stesse angosce e dei loro patemi. I protagonisti sembrano assumere, insomma,  di volta in volta l’età di chi legge. Solidarietà e complicità tra lettore reale e personaggi  di fantasia  del romanzo sono assolute e totali.

Così protagonisti e lettori vivono insieme un comune girovagare che non punta   solo alla ricerca delle forze vitali che ognuno dei siti visitati conserva, ma diventa anche  condiviso pellegrinaggio laico della speranza; speranza di trovarla, finalmente, una possibilità di accesso a quel mondo altro,  della cui esistenza non sono certi solo Otto ed Elyse, ma alla fine  anche  noi che stiamo dall’altra parte delle pagine.

 Seguendoli da vicino da un itinerario all’altro, vien fatto di pensare che il grande predecessore di Otto ed Elyse, Ulisse, la agognata via per trovare gli accessi all’aldilà  l’aveva trovata, scendendo nell’Ade.   

E chissà che, nelle gole montane della Calabria, tra gli anfratti stretti e ombrosi, descritte da Morgese, che si susseguono dall’altissima Mormanno fin giù al mare attraverso le gole e gli anfratti di Papasidero, antico luogo di lupi e di romiti, non si trovi un passaggio per quel mondo. Come potrebbe essere rinvenuto,  questo agognato ponte immateriale di congiungimento, con un colpo di fortuna,  sulla sommità del Monte Cocuzzo,  dove la notte di San Giovanni si danno convegno irrequiete streghe tra brandelli di nuvole agitate dal vento.  

O forse alla scoperta di questa nascosta via potrebbero aiutare  le riflessioni suscitate nel corso dell’escursione nel cuore della Magna Grecia, che ridesta, tra pietre bianche e frammenti di templi antichi, i  sopiti ricordi dell’insegnamento pitagorico.

Non  basteranno, a spegnere la sete di conoscenza dei due viaggiatori,  le ardite risalite in Basilicata, in Campania e in Puglia, sulle  vie interne,  progettate da ingegneri, guardinghi e timorosi dei pericoli  mare,  accanto ai percorsi fluviali, affollate un tempo, da pii pellegrini, da terrorizzati fuggiaschi, da mascherati malfattori, da cavalieri santi e bellicosi. Tortuose e ombrose strade lungo le  quali   la  voce dell’ acqua  scorrendo parlava, e ancora parla,  di misteri, di intrighi, di delitti e di tesori, come quello mai trovato  di Alarico nel letto del  Busento.

Ma un dubbio  ancora prenderà di sorpresa il lettore, quando  si renderà conto che il viaggio è narrato senza alcun riferimento preciso a come Otto ed Elyse si spostano;  si domanderà, un po’ ingenuamente, se  a piedi, o forse a cavallo, in carrozza, in treno, o addirittura a volo d’uccello su un pallone aerostatico.  E si potrà dare allora solo due risposte: che non sia indicato il mezzo di trasporto, così che il viaggio non abbia alcuna precisa connotazione cronologica, diventando il cammino di sempre dell’uomo verso la conoscenza;  oppure argomenterà  che Elyse e Otto sono già morti, sono solo anime alla ricerca della via per raggiungere il mondo che a loro spetta e compete, quell’aldilà che sono certi deve  esistere.   

Per i nostri due protagonisti, esseri umani,  creature chimeriche o anime che siano, il loro ritorno al luogo dal quale sono partiti ci sarà. Ma sarà un rientro per un soggiorno  inquieto, tormentato dal dilemma se restare in attesa inerte  degli accadimenti  sulla  amatissima collina prospiciente il mare,  a godersi albe dalle dita rosa, soli cocenti, tramonti infuocati,  guardando dall’alto le navi che fiutano l’orizzonte e solcano  le onde. O se tentare, come il temerario Ulisse di Dante, il volo forse folle verso l’ignoto.     

Scoprirà il lettore, trascinato dalla verve incalzante dell’ autore, se Otto ed Elyse,   si proietteranno nel futuro, accettando con temerarietà e ardore  di correre il  rischio di bruciarsi le ali come  l’imprudente Icaro, con   l’eventualità di lanciarsi nell’Oceano eterno come l’agile tuffatore raffigurato nel celebre dipinto di Paestum, oppure se rimarranno ancora pigramente  vincolati al loro tranquillizzante  passato,  nelle mani  del precario presente e chiudendo occhi e pensiero  verso l’incerto  futuro, sulla amatissima collina rischiarata da materne notti di luna.  

 

Morgese, torna l’arte di raccontare in quelle «Materne notti di luna»

[recensione di Daniele Maria Pegorari, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno" dell'8 agosto 2023, pag. 12]

Lavoro letterario nuovo e denso di interrogativi etici – Nel testo si riscontra l’esigenza di una scrittura che interroga il sé.

Dopo numerosi saggi, un’autobiografia, due raccolte di racconti e tre romanzi, Waldemaro Morgese torna alla narrazione con Materne notti di luna (edito da Homo Scrivens, pp. 208, euro 15), confermandosi uno scrittore adatto alla divagazione, renitente allo sviluppo di una tesi coerente, ma al contempo mosso da interrogativi etici che tornano – libro dopo libro – arricchiti dai dibattiti in corso. In particolare questo nuovo romanzo si regge su due rovelli costanti dell’autore (la passione per i libri, soprattutto rari e di nicchia, e il conflitto fra libertà e organizzazione sociale), ma accostati ad altri due temi di attualità: la crisi climatica e le teorie transumaniste. Protagonisti della storia sono Otto ed Elyse, immersi in un fitto dialogo che si acquieta a tratti per concedersi al riposo in uno spazio bucolico indicato come hill, una collina digradante sull’Adriatico, nella quale riconosciamo lo scenario di non poche pagine di Morgese, quello dell’amato poggio di San Maderno, nell’immediato Sud-Est barese: ma all’autobiografia personale e familiare rinviano anche il nome Otto – omaggio al nonno materno, il musicista Ottone Pesce, citato en passant a p. 18, una cui romanza ispira il titolo del libro – ma soprattutto il contenuto del penultimo capitolo, dedicato ai furori del Sessantotto, nella declinazione del situazionismo secondo il pensiero di Guy Debord, poi tradito e naufragato nel sangue delle piazze armate.

Ma qui non è Waldemaro «che parla», bensì un suo alter ego (già transumano? già trapassato?) come la sua amata Elyse, quasi un Adamo che con la sua Eva sta sperimentando il distacco dalla civiltà umanistica e dalla stessa Terra, con modalità che il lettore avrà la curiosità di scoprire da sé. Ma prima che ciò accada i due amanti senza età e senza storia decidono di farsi «cercatori di stimmate», viaggiatori lungo millenni di storia umana, per rintracciare momenti in cui la vita si è espressa in caratteri esemplari, accesi da volontà coraggiose, da creatività geniali, da intuizioni eterodosse; quella vita che occorre conservare in qualche modo perché continui ad alimentare la storia dell’universo, nonostante il «ciclo umano», come lo abbiamo conosciuto, si sia spento. Ed ecco, allora, le peregrinazioni da un’epoca all’altra, secondo un metodo fantastico quasi programmaticamente rivelato nelle prime pagine, dove si parla di Salgari (notoriamente narratore di viaggi mai esperiti, affabulatore straordinario ma uomo disgraziatissimo) e delle bellezze antiquarie di libri illustrati sull’alchimia, sulla mistica, sui luoghi immaginari, sulla simbologia esoterica delle architetture medievali e via saltabeccando fra i volumi più sorprendenti e incoerenti, perlopiù realmente custoditi nella biblioteca «collinare» di Morgese.

Ne scaturisce una scorribanda dalla Magna Grecia di Pitagora all’umile Brystacia (l’odierna Umbriatico, nel Marchesato di Crotone), dal tesoro di Alarico (che la leggenda vorrebbe tuttora sepolto nel greto di un fiume calabrese) alle collezioni del Bargello di Firenze e del Maschio angioino di Napoli, fino all’immaginario «Mausoleo delle forti passioni», memoriale non solo delle gesta epiche di Garibaldi e Nievo, ma anche di quelle oscure di tante vinte e tanti vinti, martiri del conformismo e dell’oscurantismo, di volta in volta accusati di stregoneria, apostasia o libertinaggio. C’è spazio anche per i viaggi nel Risorgimento di Pisacane (un altro vinto ma riscattato nella memoria collettiva solo perché i destini della storia sono andati nella direzione da lui auspicata), nel Mezzogiorno post-borbonico infestato dai briganti (che sollecitano interrogativi sui confini fra legittimità della protesta e orrore della violenza) e a Lugano, dove Otto ed Elyse incontrano Giuseppe Mazzini, «Maestro» di europeismo. Il lettore prova gusto a varcare soglie spazio-temporali che l’autore si perita di rendere plausibili, evitando il consueto armamentario fantasy o fantascientifico: niente time machines o psichedelia, solo cronotopi giustapposti che i due amanti percorrono con assoluta normalità. Ma il divertissement ha ben in vista la sua chiave seria nelle prime pagine, dove Otto dice: «potrei continuare a lungo in questo minuzioso lavoro di introspezione per […] capire perché sento il bisogno di una autoanalisi continua: di scavare, scavare, scavare. Alla fine, o si trova qualcosa di utile o qualcosa di inutile, oppure non si trova un bel niente: […] auspicherei perfino di trovare cose inutili, almeno è meglio del niente». L’immaginazione irrefrenabile di Morgese trova in questa frase una confessione sincera: l’arte del racconto non è che una forma di interrogazione di sé, alla ricerca di una chiave che risolva le contraddizioni del razionalismo in una sapienza diversa.

 

 Un viaggio nel tempo alla ricerca di un'etica della storia

[recensione di Pasquale Pellegrini, pubblicata su "Corriere del Mezzogiorno" del 19 settembre 2023, pag. 7]

 

Materne notti di luna di Waldemaro Morgese, edito da Homo Scrivens, richiede al lettore un impegno particolare, non per la scrittura o la lingua, quanto per l’immedesimazione nel viaggio, attraverso la storia e i luoghi, che impegna i protagonisti: Otto, alter ego dell’autore, ed Elyse. Il romanzo, infatti, è un viaggio nel tempo, attraverso i secoli, le civiltà, i personaggi, sull’onda della memoria, con un filo conduttore che porta fino al presente e immagina il futuro.

 «Muovendosi nella penisola e confrontandosi con luoghi e testimoni – si legge nel risvolto di copertina – Otto ed Elyse compongono una storia intensa e frammentaria, interrogandosi di continuo e invitando anche noi a interrogarci sul senso e il futuro del nostro stare al mondo». È un’operazione ardita, complessa, stimolante per certi versi nella quale si ha l’impressione di voler ricercare a tutti i costi una ragione. «Alla fine – sostiene l’autore – o si trova qualcosa di utile o qualcosa di inutile, oppure non si trova un bel niente: questa è l’ipotesi peggiore perché dà il senso dell’inconsistenza della fatica compiuta. Quindi auspicherei perfino di trovare cose inutili, almeno è meglio di niente». Quando il viaggio inizia il senso sotteso del tempo, i suoi significati reconditi si evincono e si manifestano nelle esperienze, nelle tracce, nei documenti e nella miriade di lasciti che si trovano nei libri. Sono proprio essi che danno un significato vero al tempo.

Materne notti di luna è un libro ricco di memorie, colto, che cerca di trarre dalla storia il succo di un’etica buona o quantomeno utile per il nostro tempo. Lo si coglie in certi personaggi che sembrano buttati lì per caso e invece sono emblemi di una grande forza interiore. Per esempio, il soldato romano Marco Curzio che si getta nella voragine che mette in pericolo Roma. «La voragine – commenta Morgese – si richiuse magicamente, grazie appunto a un cittadino romano che decise di onorare il bene comune senza badare a se stesso».

Avvicinandosi al presente, dopo aver attraversato epoche barbare, il Rinascimento, incontrato personaggi come Pietro Bembo, Mazzini e altro ancora, superato il ’68 con i suoi miti libertari, la realtà si tinge di scuro, nuvole minacciose si addensano sull’umanità sulla quale grava il peso di una crisi climatica che potrebbe rendere inospitale il pianeta. Tuttavia, laddove l’umanità si trovi ci sarà sempre bisogno di qualcuno che racconti i suoi passi. «Noi – conclude Waldemaro Morgese – siamo i cercatori di stimmate, i conservatori della memoria e dobbiamo seguire l’umanità in qualsivoglia forma e ovunque essa decide di andare». Il tempo, insomma, non può passare senza lasciare tracce.

 

 

"Materne notti di luna", un viaggio nel tempo e nello spazio prima che l'uomo diventi cyborg. 

L'ultimo libro di Waldemaro Morgese

[recensione di Andrea G. Laterza, pubblicata su "Mola Libera-Giornale indipendente" il 23 settembre 2023].

  L’ultimo libro di Waldemaro Morgese, “Materne notti di luna” (pagg. 202), edito da “Homo Scrivens” di Napoli, è un romanzo immaginifico, un’affabulazione letteraria che corre sul filo delle pagine in un vortice di sensazioni e di dilemmi intellettuali, lasciando il lettore, alla fine del lungo viaggio, con la consapevolezza che l’artificio del racconto si fa sostanza nelle ardite tesi dell’Autore.

Morgese è tra gli intellettuali pugliesi più lucidi e, al tempo stesso, più visionari. La sua capacità di astrazione è massima in questo lavoro, che va oltre l’esistenzialismo delle precedenti opere, con il probabile obiettivo di mettere chi legge di fronte allo specchio dell’evolversi di una storia, quella dell’umanità, tanto ricca quanto complessa e contraddittoria, fino alla palingenesi ultima del transumanesimo, dell’uomo che evolve, per sfuggire al suo destino mortale e alla stessa fine ineluttabile del pianeta, in cyborg, uomo-macchina, libero dalla malattia e dall’invecchiamento, in una trasformazione post-umana che traguarderà altri mondi abitabili.

A condurre il lettore nel labirinto di un mondo morente – con il sole che scalda sempre meno terre e oceani, e dà avvio ad una glaciazione incipiente nella babele di lingue di scienziati, statisti, filosofi e religiosi su quale scialuppa di salvataggio offrire ad un’umanità dolente e rassegnata – è Otto, l’alter ego dello scrittore, insieme alla sua riflessiva e saggia compagna Elyse.

Un giorno qualsiasi – quando il loro “buen retiro” sulla “hill”, la dolce collina, onusta di ricordi, affacciata sull’Adriatico, è ancora un posto rassicurante e lontano dall’incipiente tragedia planetaria – Otto ed Elyse, metafisici Ulisse oltre le colonne d’Ercole della conoscenza, intraprendono un viaggio verso l’ignoto a ritroso nel tempo, alla ricerca delle “stimmate” dell’umanità.

Un percorso intrapreso, in una dimensione irreale e onirica, da due esseri umani che già vagheggiano il salto di specie verso l’ibridazione uomo-macchina.

Otto ed Elyse si ritrovano nella selva oscura della grande storia in uno scorrere randomico dei millenni e dei secoli.

Loro stessi diventano protagonisti di una macchina del tempo virtuale e si fanno cercatori dei segni che hanno lasciato una traccia indelebile nella storia umana: quelle “stimmate” che hanno marchiato a fuoco il tempo trascorso con il genio, il coraggio, l’inventiva, la forza degli esseri umani migliori, vinti o vincitori.

La lunga cavalcata per linee temporali, ma anche zigzagando qui e là, andando avanti e indietro nello spazio-tempo, vede Otto ed Elyse assistere alle mirabilie ma anche alle debolezze e alle contraddizioni di personaggi iconici, con il loro agire nei macro eventi: dalla Magna Grecia di Pitagora alla prima Roma che contende il primato agli Etruschi, ai regni barbarici della penisola, nella leggenda del tesoro di Alarico sepolto sotto il letto di un fiume, passando per la ricchezza artistica del Rinascimento fiorentino e giungendo alla sfortunata spedizione di Carlo Pisacane a Sapri.

Il patriota si confessa ad Otto ed Elyse, mentre le figure dei briganti sanfedisti gli fanno da contrappunto, con la loro carica eversiva, fino a quando, travalicando la sottile linea rossa di un tempo indefinito, si staglia la figura del Maestro, di Giuseppe Mazzini, più misterico ed occultista, nella sua dimensione massonica, che rivoluzionario e agitatore sociale.

È in un esoterico e vagheggiato “mausoleo delle forti passioni”, il “mausoleo giustiziere”, ubicato idealmente tra i contrafforti del Cilento, a picco sul mare intorno al mitico Capo palinuro, che i due viaggiatori del tempo rivelano la loro nemesi, la giustizia riparatrice delle forti passioni di libertà e giustizia conculcate nei secoli dal potere dominante.

Ed ecco emergere in cima ad una “scalinata che fugge verso il cielo”, dai blocchi squadrati e sottili ma possenti, molte figure eteree, alcune misconosciute e, anzi, maciullate dalla Storia, come le donne accusate di stregoneria, che trasportano nelle menti dei crononauti le loro vite nascoste, celate tra le pieghe dei grandi eventi.

Tra le tante storie che si dipanano, rotolando lungo le marmoree scale, nei labirinti del tempio laico, quella del rapporto conteso tra Garibaldi e una delle sue donne, Giuseppina Raimondi, con il corollario della tragica scomparsa del garibaldino e scrittore Ippolito Nievo, a bordo del piroscafo “Ercole”, naufragato misteriosamente in una notte di marzo, nel Tirreno in tempesta, con importanti documenti politici e finanziari al seguito.

Fu la prima strage di stato, orchestrata dal potere sabaudo delle nuova nazione unitaria? Otto ed Elyse non ce lo dicono, restano troppo criptici, ma forse Nievo, se interrogato dai due, avrebbe ben potuto dire di più.

Il lungo viaggio scivola in avanti, erratico e multiforme, fermandosi all’anno fatidico della grande contestazione studentesca, il 1968.

A Roma, Otto ed Elyse non incontrano i grandi cortei, gli scontri di piazza, i capi della rivolta di Valle Giulia, dove tutto ebbe inizio. Otto trasfonde nel lettore l’unica esperienza che egli giudica davvero innovativa di quel periodo: gli iconoclasti del gruppo “Gli uccelli”, con la loro carica protestataria surreale e sciamanica, che si rifacevano al “situazionismo” di Guy Debord, l’idea di una rivoluzione pacifica e creativa, sconfitta dalla P38 e dalla lunga scia di sangue che si sparse con il prevalere del cupo e mortale terrorismo degli Anni Settanta.

Il viaggio termina qui, dopo un girovagare spazio-tempo che si è riempito di mille citazioni enciclopediche, riversate anche a piè pari dalle fonti consultate, come l’Autore si incarica di chiarire.

Dissertazioni minuziose con lo scopo di evidenziare la tortuosità degli eventi, la loro estrema complessità, il concatenarsi tumultuoso di microstorie che affluiscono nella grande corrente di un tempo che, forse, è solo un grande blocco, contenente, in un unico “Tutto”, passato, presente e futuro, senza soluzione di continuità.

E che soltanto per il gioco casuale della meccanica quantistica si palese in un modo piuttosto che in un altro a chi scorre, plasticamente adeso, insieme al flusso universale dello spazio-tempo.

Solo per i sentieri di borgesiana memoria che, qui e là, in maniera randomica, si biforcano, le vite assumono questa o quella direzione, marchiando però il destino inconsapevole dell’uomo biologico, con gioia e, più spesso, sofferenza, nella sua breve ma agitata esistenza terrena.

Saranno le “stimmate” a qualificare quel percorso: se si tratterà di un transito dalla nascita alla morte senza marcare e permeare di sé gli eventi, ovvero se il “segno” lasciato ai posteri resterà degno di nota.

Il ritorno alla “hill”, alla Itaca della serenità quotidiana, è interrotto, come scritto in premessa, dal precipitare della situazione climatica e dal sopraggiungere dell’instabilità del pianeta, con il sole che accelera verso la sua morte.

Otto ed Elyse si interrogano a fondo se le “stimmate”, trovate nel loro peregrinare spazio-tempo, potranno essere trasfuse dagli scienziati nella controversa forma di vita che si staglia all’orizzonte dell’umanità in cerca di una nuova dimensione, quella della commistione uomo-macchina, il cyborg.

La risposta la cercheranno i lettori di quest’opera visionaria: tra accenti lirici di buona letteratura, accanto ad analitiche disquisizioni, emerge la concezione transumanista dell’Autore, con la vita che trascende nell’immortalità.

In tempi di narrativa “prêt-à-porter”, con il libro-oggetto e lo scrittore (o la scrittrice) “squillo” che strizza l’occhio in maniera ruffiana al lettore, per somministrargli il bromuro del pittoresco e dell’effimero, l’ultimo lavoro di Waldemaro Morgese è invece rivolto a quel pubblico che nelle pagine di un romanzo trova interrogativi e cerca risposte.

Una simulazione della complessità dell’esistenza che, alla fine, si risolve in un aumento di individuale consapevolezza.

 

Waldemaro Morgese, Materne notti di luna (Homo Scrivens, Napoli 2023)

[Recensione di Carmine Tedeschi, pubblicata su "Incroci OnLine" il 17 dicembre 2023]

 Immaginate una coppia intellettualmente affiatata in una biblioteca ben fornita di libri storici, biografici, bibliografici, geografici, oltre che di cronache locali di storia patria, di documenti rari, mappe, disegni, foto, carte d’archivio sconosciute ai più. Immaginate questi due che rovistano fra le tante pagine, saltabeccando da un foglio all’altro, non tanto secondo vaghi criteri di ricerca, quanto piuttosto secondo curiosità e gusti personali, o per associazioni di letture fatte, di richiami a quanto già conoscono e reciprocamente si rammentano; su ciò che trovano si soffermano e commentano ad alta voce fatti e personaggi di rilievo storico, ma anche minuzie biografiche, microstorie assai poco note. E alla fine di questo lavoro da api mellifere, ecco che consegnano il loro miele all’arnia della scrittura. Ebbene, se scorrete il libro di Morgese, tutto questo non dovete più immaginalo. Ce l’avete fra le mani.

Chiamarlo “romanzo” suona curioso, a causa della cornice assai tenue: un uomo e una donna che viaggiano con menti erudite. Un puro pretesto, in cui vengono incastonati fatti storici grandi e piccoli, privi di continuità e spesso di contiguità. Eppure il libro risponde esattamente alla definizione del genere romanzo: “racconto misto di realtà e immaginazione”. Dove però l’immaginazione è tutta spostata nella cornice (i due che viaggiano, cercano e commentano); mentre la realtà è appunto quella storico-geografica. Nota e meno nota. In questo modo, proprio come succede in una biblioteca, sparisce ogni continuità di tempo e di spazio, e ciò sulle prime sconcerta il lettore. Il quale comincia a cogliere la struttura e le intenzioni del testo solo quando decide di lasciarsi anche lui portare in volo, senza un ordine prestabilito, da un’epoca all’altra, da una terra all’altra, e infine da un giudizio all’altro circa la rievocata materia.

Giusto per dare un’idea: si passa dalla Magna Grecia di Pitagora alla Roma delle origini, per tornare alla Calabria di Alarico, dei regni romano-barbarici e al collasso dell’Impero Romano d’Occidente. Da qui si gira la pagina per trovare la Napoli aragonese di Alfonso il Magnanimo, e dopo altre poche pagine spunta il Cilento e l’impresa di Carlo Pisacane, col rinvio alla “tempesta del dubbio” di Mazzini circa l’utilità delle rivolte patriottiche fallite.  La tappa successiva è il brigantaggio postunitario, seguito da un incontro con un improbabile Mazzini che abita una specie di casale solitario, e con cui i due discutono a cena. Torna poi il Cilento con un immaginario “Mausoleo di Castellabate” cui vengono associate senza troppe distinzioni figure storiche, racconti di magia, streghe, maghi e quant’altro. Il Sessantotto viene rievocato attraverso il teatro d’avanguardia accanto al banditismo sardo, alla violenza degli anni di piombo, all’abolizione dei manicomi. L’ultima parte del libro è occupata dall’angosciosa domanda (affatto nuova) sulle probabilità di sopravvivenza del genere umano e sulle più fantasiose ipotesi di fuga dal nostro pianeta.

Al fondo di questo ripasso a volo di rondine si intuisce una vaga intenzione didattica. Ma è difficile vedere come possa giovare un tale ripasso, portato nella luce della scrittura, di periodi o personaggi storici privi di un “prima” e di un “dopo”.

L’artificio letterario del volo mentale funziona per chi ama il collezionismo erudito, che pure è una gran bella cosa. Per ogni altro lettore risulta alquanto stucchevole.

 

 

Viaggio tra “Materne notti di luna”

[recensione di Giusy Carminucci, pubblicata su “Fax Mola” del 2 marzo 2024, Pag. 18]

Romanzo di Waldemaro Morgese tra storia, filosofia e immaginazione pensando al futuro sostenibile

 «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!».

Questo è il motto di una delle due dame che Otto ed Elyse, prima di lasciare Castellabate, incontrano in un’osteria. Accade nel paragrafo “Il Mausoleo delle forti passioni”, all’interno del capitolo “Meridies”. Quello del Mausoleo è il paragrafo che più di tutti affascina l’autore, perché è una sorta di costruzione immaginaria, dove sono esaltate tutte le passioni relative alla libertà e alla giustizia, che sono assolutamente «nemiche dei falsi sentimenti e delle stantie convenzioni». Nel Mausoleo c’è posto anche per le cosiddette streghe, per le donne, per i reietti e soprattutto per i vinti, in quanto, secondo Otto ed Elyse, il nostro giudizio deve essere governato non dal fatto che uno abbia vinto o perso ma dall’essere stato un sublime, un generoso, uno che obbedisce ai moti profondi della mente e del cuore.

Il romanzo, iniziato nell’aprile del 2021 e completato quasi un anno e mezzo dopo, aveva come titolo provvisorio “Epopea”. Poi mutato in “Materne notti di luna”.

L’autore definisce il genere utilizzato affine allo storico-fantastico, ma secondo la mia chiave di lettura, sicuramente, si posiziona tra il saggio filosofico e il diario di un viaggio insolito e complesso.

Di un viaggio, direi, forse anche autobiografico: dimensioni letterarie in cui Otto ed Elyse sono sì personaggi transumani e fantastici, ma con molte sfaccettature affini alla personalità del nostro autore.

Esploriamone lo spessore, dunque.

Otto ed Elyse vivono su una collina che lambisce il mare. Elyse, la compagna di Otto, è una donna che ama i racconti fantastici e avventurosi. Otto condivide con lei le problematiche relative all’umanità: l’Aldilà, ma anche l’Al di qua e si pone il problema su come si possa attivare un contatto con chi non c’è più.

Elyse è scettica nei confronti di questa problematica che fa emergere Otto, così come delle sue suggestioni relative all’occultismo e alla reincarnazione.

Sono personalità complesse e affascinanti, i due protagonisti. Personalità ricche di mistero. Personalità desiderose di sempre nuove scoperte: anche per questo intraprendono un viaggio.

È, quello del viaggio, uno dei nuclei tematici che questo romanzo affronta, tra gli altri: la madre terra, un contenuto epico trasfuso nelle vicende storiche, le figure di grandi personaggi, attraverso le loro passioni e i loro coraggiosi approcci all’esistenza. Il tutto legato da un solido e “curioso” Fil Rouge che lega le tappe del viaggio: una precisa scansione di flusso temporale, che va dall’ “Aurora” al mezzogiorno, “Meridies”, al tramonto, “Occasus”. Sono i tre momenti chiave di un’intera giornata, quelli che segnano la ciclicità della vita quotidiana, ma anche i tre momenti chiave di “materne notti di luna”, che alla Storia e non alle storie affida l’orientamento dell’itinerario che Otto ed Elyse seguono.

Il Nostro, infatti, quasi come se l’intera vicenda si svolgesse nell’arco di una sola giornata, lascia che questa scansione sintetizzi la storia di una intera civiltà, che trova la sua ragion d’essere tra il nascere, il rifulgere e il tramontare.

Abbiamo detto che uno dei temi principali è quello del viaggio ed è proprio lo scopo del viaggio, la disperata ricerca di quello che resta della vita e dell’essenza della Madre Terra, ormai giunta alla sua ultima fase di sopravvivenza a causa di una insidiosa glaciazione, a dare il senso e significato alla ricerca che l’Autore compie con Otto ed Elyse, ma, anche, contemporaneamente con ciascuno di noi.

I due protagonisti vivono in simbiosi con la Madre Terra e in ogni racconto emerge il loro essere dentro il respiro, dentro l’energia, dentro l’espressione stessa della Madre Terra. Otto ed Elyse sono due innamorati attenti a quello che è il contatto con il mondo. Proprio in questo scenario, il loro vegliare nella notte è solo un’opportunità che si danno, per sorprendere il sopraggiungere dell’alba e quindi di una nuova opportunità di vita.

In “Materne notti di luna” il contenuto epico viene permeato dalle grandi passioni che caratterizzano l’approccio all’esistenza dei due protagonisti. Il messaggio di fondo che essi vogliono mandare è che, come dice l’Autore stesso, «si può resistere alle dissoluzioni e alle difficoltà imposte dalla travagliata esistenza contemporanea (solo) nutrendo e coltivando forti passioni e coraggiose volontà».

L’originalità del romanzo è proprio in relazione alle figure dei due personaggi, perni dell’intera narrazione, in una sorta di interlocuzione, quasi complice, che l’autore riesce a stabilire come ponte tra i protagonisti e il lettore, tra i personaggi della fantasia e quelli della realtà, in modo assolutamente reale. È come se chi legge, mentre legge, riuscisse ad attraversare la membrana che separa la realtà storica da quella verosimile; ad entrare, come protagonista, nel viaggio e a visitare, insieme a loro, i luoghi proposti da Otto ed Elyse, diventando Otto ed Elyse. Questa sostituzione ideale avviene, perché ci si avventura e ci si sente spinti in una sorta di “pellegrinaggio laico della speranza”, come lo definisce Waldemaro Morgese.

Per il lettore/protagonista è bello scoprire che Otto ed Elyse si spostano, partendo da questa non identificabile collina, che, per chi conosce l’Autore, potrebbe essere una proiezione del Poggio delle Antiche Ville, territorio d’elezione del Nostro.

Da un’attenta lettura emerge un’altra curiosità: qual è il mezzo che Otto ed Elyse utilizzano e ci fanno utilizzare per poterci muovere e spostare in questo viaggio fantastico?

Non è possibile ritrovare il nome di un mezzo di trasporto preciso. L’intero racconto non è, infatti, connotabile cronologicamente: quello che Morgese ci fa fare attraverso le sue parole, in questo romanzo, è un viaggio attraverso la conoscenza, razionalmente volando sulle ali di una “fantasia concreta”, senza alcuna nota moraleggiante.

La letteratura creativa, infatti, per il nostro autore non deve avere un valore didascalico. “Materne notti di luna” non deve e non vuole essere una di quelle opere che propongono l’ammaestramento scientifico, dottrinario o morale. La sua esigenza espositiva non deve avere l’intento di temperare con l’arte l’aridità degli insegnamenti.

La scrittura è, sicuramente, precisa nelle descrizioni, che, però, lasciano il lettore libero di immaginare i contesti.

La qualità del lessico è adeguata al contenuto e l’uso di alcuni termini è utile solo a veicolare meglio i significati dei vari racconti.

Si comprende bene come, il suo, sia uno stile unico e autentico, organizzato attraverso un linguaggio formale, ricco di aggettivi, similitudini e metafore, articolato in dialoghi, descrizioni, riflessioni.

Val la pena porre in evidenza il messaggio che l’Autore lancia all’interno di questo libro, in merito all’importanza che riveste la biblioteca di oggi, nonché al ruolo svolto dal Rinascimento nella cultura del Mezzogiorno. Risulta particolarmente importante la citazione della Dogana, perché nel descriverla Morgese dà importanza a quelli che sono gli elementi di un patrimonio culturale materiale legati alla cultura vera e profonda di un territorio e di una popolazione, che non sono necessariamente configurabili in un libro, qual è, ad esempio, la transumanza. Elegante escamotage dell’Autore il mettere in evidenza che, per secoli, quelle vie, che ora anche Otto ed Elyse stanno percorrendo, sono state motivo di valorizzazione delle risorse di un territorio e, quindi, elemento fondante di un vero e proprio Rinascimento culturale, in quanto portano all’esaltazione delle bellezze dei luoghi e degli strumenti della conoscenza.

In “Occasus”, Otto ed Elyse concludono il loro viaggio, tornando sulla loro amata collina. È in questo capitolo che i due si pongono il problema se restare sulla Terra, ormai avvolta da una maschera di ghiaccio o seguire gli umani nella nuova avventura delle stazioni spaziali. È qui che nasce il concetto, che l’autore lascia aperto e che collega ad un’immagine molto forte e profonda: il concetto di trasmigrazione e l’immagine dei ‘cercatori di stimmate’.

«I cercatori di stimmate – dirà nel suo libro Waldemaro Morgese – sono i conservatori della memoria e hanno l’obbligo di seguire l’umanità in qualsivoglia forma e ovunque essa decida di andare».

La trasmigrazione, essendo il passaggio da una situazione ad un’altra, è il ‘luogo’ in cui si intrecciano disquisizioni sulla vita e sulla morte; sull’interpretazione da dare alla storia. Qui trovano spazio le caratterizzazioni con cui identificare le varie vicende, che si sono susseguite nel tempo. Le stimmate vengono, in questo contesto, ad assumere il ruolo di garanzia, capace di consentire al viaggiatore, che fin qui ha percorso una avventura insieme ai protagonisti, di considerare che il cambiamento ha sempre importanza e che la vita deve avere un significato di libertà e deve essere capace di divincolarsi da qualsiasi costrizione sul passato. È la garanzia che non si deve cadere nell’oblio del dimenticatoio identitario.

“Materne notti di luna” è un movimento della mente e del cuore attraverso le molteplici letture che, nell’arco dei suoi anni, Waldemaro Morgese ha frequentato e che lascia riaffiorare alla sua memoria.

«Sapere aude» è il motto e il monito che Otto lascia a coloro che hanno intrapreso il viaggio con lui e la sua Elyse, attraverso il senso del proprio personale essere protagonisti del proprio presente, che è foriero del futuro sostenibile di una intera collettività.

 

 

 

 

 

 

 
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04-05-2023: "SCIAMANI" DI W. MORGESE A BARLETTA

04-05-2023: "SCIAMANI" DI W. MORGESE A BARLETTA - Casina Morgese

Il 4 maggio 2023, alle ore 18.00, nell'ambito della manifestazione "Il Maggio dei libri" promossa a Barletta dal Comune insieme alla Biblioteca Comunale e ad altri partners si è svolta la presentazione della raccolta di racconti "Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo" di Waldemaro Morgese. Ha presentato Angela Redavid con letture affidate a Gianni Fimiani. Presente l'editore Cristiano Marti.

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18-12-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE ALL'ARCHEO CLUB DI BARI

18-12-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE ALL'ARCHEO CLUB DI BARI - Casina Morgese

Sabato 18 dicembre 2021, alle ore 18, presso la sede barese dell'Archeo Club si è svolta una presentazione della raccolta di racconti di Waldemaro Morgese "Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo" (Giazira scritture editore, 2021). Il libro è stato presentato dalla scrittrice Carmen Mari, mentre l'attrice Paola Martelli ha letto alcuni brani tratti dai racconti Heroes, Meticciamento, Valli verdi e cascate. Mari ha evidenziato la validità della scrittura e ha lumeggiato il "mondo" variegato e intenso che si evince nei 25 racconti, con protagonisti sia donne che uomini e che comunque rimanda molto al "mondo" dell'autore. L'Autore, presente, ha risposto ad alcune domande formulate dal numeroso e attento pubblico presente.

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21-10-2021, BARI: GIORNATA IN ONORE DI FERDINANDO CANALETTI

21-10-2021, BARI: GIORNATA IN ONORE DI FERDINANDO CANALETTI - Casina Morgese

Il 21 ottobre 2021, presso la sala conferenze della Ragioneria territoriale dello stato di Bari/BAT, si è svolta una giornata in onore di Ferdinando Canaletti, già ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche nell'Università degli studi di Bari "Aldo Moro".

Insieme agli interventi programmati di Elio Borgonovi, Antonio Nisio, Patrizia Romanazzi e Michele Petruzzellis, Waldemaro Morgese ha rievocato alcuni aspetti del magistero del prof. Canaletti. 

L'intervento di Waldemaro Morgese è in allegato.

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28-08-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE A BISCEGLIE

28-08-2021: "SCIAMANI" DI W.MORGESE A BISCEGLIE - Casina Morgese

Sabato 28 agosto 2021, alle ore 20.00, la raccolta di racconti di Waldemaro Morgese "Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo" (Giazira scritture editore, 2021) è stata presentata nell'ambito dell'undicesimo Festival letterario "Libri nel borgo antico-conversazioni con gli autori nelle piazze del centro storico". Ha discusso del libro Marino Pagano, giornalista e scrittore, presente l'editore Cristiano Marti e l'Autore. Le letture sono state svolte dall'attrice Paola Martelli. 

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LA COMPAGNIA DEL MELOGRANO, ROMANZO DI PIERO FABRIS

LA COMPAGNIA DEL MELOGRANO, ROMANZO DI PIERO FABRIS - Casina Morgese

LA COMPAGNIA DEL MELOGRANO, ROMANZO DI PIERO FABRIS

di Waldemaro Morgese.

Il romanzo di Piero Fabris La Compagnia del Melograno (Radici Future Produzioni, Bari, 2021, pagg. 214, € 15.00) è un’opera che non esito a definire eccellente; anche ben risolta sul piano della “cifra” stilistica e dell’intreccio. Sull’intreccio (la “storia” narrata) avrei un solo dubbio e riguarda la scelta dell’Autore di “incapsulare” nella parte finale del libro un omaggio ad alcune mode contemporanee, in questo caso sulla scia del “Codice da Vinci” di Dan Brown e del suo protagonista principale Robert Langdon, esperto internazionale di simbologia e crittografia religiosa.

Ma a parte questo particolare, il romanzo potrei definirlo un florilegio di messaggi fascinosi ed anche coraggiosi, che di certo colpisce nel profondo il lettore purché sia una mente coraggiosa e ricettiva.

Sul romanzo aleggia in ogni pagina la figura di Hrand Nazariantz: il poeta simbolista armeno nato nel 1886 a Iskudar-Costantinopoli ed esule a Bari nella parte più feconda della sua vita artistica (dal 1913). Personalmente ho appreso dell’esistenza di Hrand esattamente nel dicembre 1987, quando Pasquale Sorrenti mi regalò il suo “Hrand Nazariantz uomo, poeta, patriota”, pubblicato con Levante Editori in occasione del venticinquesimo della morte del poeta.

Il romanzo è sapientemente costruito grazie ad una approfondita frequentazione da parte dell’Autore di una vasta messe di documenti e fonti sul poeta armeno e, soprattutto, sul milieu artistico-culturale che si venne a costituire attorno alla sua carismatica e sotto certi aspetti inquietante figura. Quindi potremmo definirlo anche un romanzo “storico”, di una tipologia che conosce interessanti esempi nel panorama letterario: citerei perfino il romanzo incompiuto di Pier Paolo Pasolini “Petrolio”, che al suo interno ha numerosi innesti documentali. E tuttavia non deve affatto credersi che l’opera di Fabris sia in qualche modo paludata: anzi, è uno splendido avvicendarsi di spunti di riflessione e di godimento estetico offerti al lettore attento.

Enumererò questi “fiori” (o petali del florilegio) ma prima intendo dichiarare una mia sensazione che ho avvertito fin dalle prime pagine, vale a dire un prepotente impulso a considerare un rimando filmico. Ebbene, La Compagnia del Melograno mi ha fatto pensare a “Midnight in Paris”, scritto e diretto da Woody Allen, e mi spiego. Il film di Allen catapulta il protagonista, l’aspirante scrittore Gil, quasi un secolo addietro, nella Ville Lumière degli anni Venti, ove incontrerà Scott Fitzgerald, Picasso, Buñuel, Hemingway, Stein. Pur senza il marchingegno del viaggio nel tempo anche Fabris ricostruisce magistralmente le atmosfere soprattutto della Bari intellettuale ed artistica del tempo di Hrand: richiamando in vita i suoi pittori, i suoi letterati, i suoi poeti e scrittori e i luoghi in cui si riunivano per discutere di arte, di poesia, di cosmogonia. Con maestria (e fascino) Fabris ricostruisce anche l’aura spiritualista, simbolista ed esoterica (oltre che avanguardistica) che percorse agli inizi del XX secolo il capoluogo pugliese, citando nomi topici come Rudolf Steiner (una cui importante opera fu tradotta dagli Editori Laterza) o Giuliano Kremmerz (al secolo Ciro Formisano, forte presenza neopitagorica a Bari), o anche i futuristi che animarono il movimento marinettiano in Puglia.

Ma quali sono questi “fiori”?

Il revival di personalità e luoghi mitici del capoluogo pugliese, cui ho accennato, non solo degli inizi del Novecento ma anche di alcune decine di anni fa, come ad esempio la Libreria Sorrenti, il Bar Sottano, il Circolo Canottieri Barion, il ristorante del Circolo Unione.

Gli omaggi alle bellezze di Troia e soprattutto alla “massa critica” culturale della Conversano di alcuni decenni fa, ricostruita in modo efficace per sottolineare che la vera cultura non è eventistica ma una lunga e paziente sinergia fra le capacità umane (anche quelle capacità giovanili che si riunivano nel giardino con l’albero di melograno).

Le splendide descrizioni delle atmosfere veneziane.

Un forte richiamo alla valore immaginifico della poesia, che parla senza mediazioni: “la poesia è distillato del cuore. Raffina l’animo”; “I poeti verranno, saranno come pellegrini dalle lingue di fuoco, saranno i figli di miraggi immensi fatti di segreti incanti”. La condivisione di una idea di poesia “che non inciampa nell’ipocrisia di intellettuali prostituiti alla notorietà, ma poeti visionari, che si sono immersi nel flusso cosmico della bellezza autentica”.

La valorizzazione di musei e biblioteche (imperdibile il battibecco con il custode demotivato di un museo periferico!).

Il valore medicamentoso del ricordo: Santino, padre di Sophie, “inciampa nei ricordi”, oppure è “inarcato sulla pertica della memoria”.

Il fastidio per tutto ciò che sia rozza esaltazione dell’effimero, del vacuo: “si ritrovarono nella Bari del proprio tempo, che si consuma in eventi spettacolari senza ali né radici, tra il brusio di gente sull’uscio dei negozietti e lo scalpitio dei passi sui lastricati, tra le corti e i vicoli”; ovvero la condanna dell’involuzione dei futuristi “belli ingegni naufraghi nei bassi fondi della popolarità”.

L’idea che la bellezza è fatica e non è per tutti: “i semplici non devono essere confusi con i banali, perciò l’isolamento e la riservatezza erano un obbligo per chi è conscio del miele della propria arte”; “non si prepara un letto di rose per gli asini”; i veri artisti “son persone vicine al popolo e distanti dalla gente”.

Il senso acuto della caducità e dello svanire di tutto: “Dei sognatori di un’alba di bellezza, gli animatori della cultura raffinata, i protagonisti di un’epoca di grandi progetti sembra non sia rimasto nulla o meglio, sia rimasto ben poco e niente”.

Insomma questo “florilegio” è un insieme di suggestioni subliminali molto coerenti fra loro, che da un lato sono la poetica e le convinzioni dell’Autore, dall’altro impreziosiscono il racconto e rappresentano il vero lascito che l’Autore affida al poeta, all’uomo e al patriota magnificato.

Il romanzo ci parla? Hrand ci parla? L’Autore ci parla? Ci parlano certo, in modo forte e chiaro, dal momento che l’oggi è un’epoca di spettacolo, spesso di stilemi scontati, di vanesio protagonismo.

 

 

 

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SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO: Recensioni

SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO: Recensioni - Casina Morgese

RECENSIONI  A SEGUIRE DI: VITO MARANGELLI, DANIELE MARIA PEGORARI, ANNALISA BONI, ENZA CAPUTO, GIULIA POLI DISANTO, MARY SELLANI (2), ANDREA LATERZA, PIERO FABRIS (2), GIUSY CARMINUCCI, CARMEN MARI.

 

 

IL NUOVO LIBRO DI WALDEMARO MORGESE: CHE DIRE? HO UNA SOLA POSSIBILE DEFINIZIONE. “MULTI…”

 di Vito Marangelli

 [Gruppo Facebook Il Periscopio-Osservatorio della vita culturale e politica molese - 12 aprile 2021

https://www.facebook.com/groups/855075411196214/permalink/3811423392228053/].

 Ho appena finito la lettura integrale del libro recentemente uscito di Waldemaro Morgese ("Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo. Racconti", Giazira Scritture ed., 2021), una silloge di racconti che sintetizza gli aspetti multiformi della personalità dell'autore.

 Il "multi..." della mia definizione si riferisce alla diversa natura dei racconti, tutti piuttosto brevi e godibili, ma anche al fatto che l'Io Narrante si incarna in personaggi assai diversi (uomini e donne), alla diversità degli stati d'animo, alla diversità dei temi (scopro un Waldemaro appassionato di fantascienza che mi era finora ignoto, ma anche di matematica). Insomma, lo specchio perfetto dell'intellettuale curioso del mondo che noi abbiamo imparato a conoscere nel tempo.

Tra i vari racconti avrei voluto segnalarne qualcuno in particolare, ma poi ho deciso che non avrei saputo quale scegliere con priorità. Quello che mi sembra di aver colto è il tema dominante dell'autobiografia che apre squarci intensi sull'anima dell'autore. Alcuni racconti sono veramente toccanti.

 ll nome completo dell'autore è "Antonio Waldemaro Ottone", nome che implica una corposa eredità di carattere anche artistico, vista la professione del nonno Ottone Pesce, compositore e direttore d'orchestra per il quale Waldemaro nutre una vera e affettuosa ammirazione. Quando sei in quella fase dell'esistenza in cui i vecchi amici cominciano ad abbandonare questa vita, non puoi che ricordarli con commozione.

Ma, Waldemaro, nuovi amici sono pronti ad ascoltarci, è una assoluta verità. Insomma, un libro di cui consiglio vivamente la lettura. In libreria a Mola alla "Libreria Culture Club Cafè" di Domenico Sparno.

 

 

 

QUEI 25 PERSONAGGI IN CERCA DI SCIAMANI NOTE E…ARABE FENICI – I racconti di Waldemaro Morgese

di  Daniele Maria Pegorari

[La Gazzetta del Mezzogiorno - 4 giugno 2021, p. 15].

 La fantasia narrativa di Waldemaro Morgese (1945), autore sempre a cavallo fra racconto d’evasione e saggismo, fra autobiografia e invenzione, trova in quest’ultimo libro, Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo (Giazira scritture, Noicattaro 2021), la via convincente di una serie di brevi racconti di varia ispirazione; variabile è anche il punto di vista, sempre «interno», ma ora maschile ora femminile, con un effetto che spiazza piacevolmente il lettore che nelle prime righe di ogni bozzetto prova a scommettere sul genere, sul carattere e sulle inclinazioni di gusto della voce narrante.

Ad accomunare questa pluralità di voci, tuttavia, c’è una sorta di «aria di famiglia» che individuerei nella loro «memoria di carta»: più che di bibliofilia, intesa come collezionismo raffinato o compulsivo, i personaggi di questi venticinque racconti si muovono divaganti a partire quasi sempre dalle loro letture, dal loro ricorrente mestiere di bibliotecari, dalla curiosità con cui essi spaziano dal romanzo di viaggio alla matematica, dalla letteratura esoterica a quella politica, dalla storia locale alla musica colta.

Impossibile non pensare allo spazio concreto della biblioteca della bella casina di campagna dell’autore, dove molti dei libri di cui si parla sono effettivamente custoditi, eppure l’abilità di questa scrittura ne fa il tappeto elastico di salti nel sogno, negli accostamenti bizzarri, negli svolazzi dell’affabulazione. Aneddoti e curiosità qui diventano spiragli che immettono in mondi alternativi, interstizi attraverso i quali i lettori accedono alle dimensioni alternative delle favole e della realtà virtuale, delle reincarnazioni e dello spazio microscopico.

Allora ci commuoviamo per il cane che attende la voce del padrone rimanendo incollato alla tromba del grammofono e il particolare si colora improvvisamente di allusioni transumaniste circa la prosecuzione della vita attraverso la macchina; seguiamo la disperazione del comandante Adamo, superstite di un naufragio cosmico, il cui pensiero (forse l’ultimo) va a una danzatrice di ritmi tribali; facciamo una zingarata in auto con lo smemorato Vittorio oppure indossiamo il visore in un museo virtuale per trovarci al cospetto delle piramidi sul Nilo o fra le armature scintillanti dei paladini ariosteschi, ma forse nell’un caso e nell’altro solo per tentare di sfuggire al tedio del presente; ascoltiamo gli Style Council in una Varsavia che fa le prove generali di democrazia liberale, Bernstein che dirige la nona di Beethoven in una Berlino appena riunificata e la Roma capomunni di Nino Rota suonata a Bari per pochi intimi. Forse una chiave di lettura è offerta dal trittico di icone allineato nel racconto intitolato, non a caso, Heroes: Giordano Bruno (il teologo eretico che avrebbe aperto la strada al concetto di multiverso), Don Chisciotte (il cavaliere che non si arrende alla prosa della modernità e si ostina a interpretare il mondo secondo un codice favoloso) e la DeLorean (la supertecnologica automobile di Ritorno al futuro). Come dire: spregiudicatezza della ricerca, rifiuto della prassi e fiducia nella tecnica che, contro ogni apparente contraddizione (soprattutto del termine medio rispetto agli altri due), si costituiscono come virtù di quel tipo di intellettuale illuminato, diciamo pure ‘umanista innovatore’ che Morgese da sempre ha cercato di incarnare e di favorire con la sua attività di civil servant, professionalmente prima, creativamente poi.

In questa affascinante triangolazione sta forse il segreto per coniugare renitenza al conformismo e visione progressista della storia, nostalgia del passato e curiosità per il nuovo, inettitudine e attivismo. Ciò di cui abbiamo bisogno per scansare le odierne banalità insidiose «della ripresa e della resilienza».

 

 SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO: IL PATTO AUTOBIOGRAFICO DI WALDEMARO MORGESE

 di Annalisa Boni

[Casinamorgese.it - 23 giugno 2021].

Anton Čechov ha teorizzato che un racconto si caratterizza da un’introduzione, un climax e da una epifania o denouement che potrebbe essere grossolanamente tradotto ‘l’esito di una storia’.

Waldemaro Morgese con il suo nuovo libro Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo, edito da Giazira Scritture, ci regala venticinque racconti. Questi racconti possono essere assaporati in maniera discontinua o no, secondo l’umore del lettore. Apparentemente nulla o poco lega un racconto all’altro a parte un clin d’œil all’intestazione del volume che fa echo ad alcuni titoli delle venticinque storie riunite in questo testo.

Hemingway diceva che il miglior prologo ad un romanzo sono i racconti nei quali, a prima vista, sembra che nulla di clamoroso accada ma, in realtà, i fili sottili della vita sono già ben dispiegati.

In questa raccolta, infatti, il tono è prevalentemente pacato, delineato dall’uso del discorso diretto, da un lessico preciso ma per lo più quotidiano. Tuttavia, quasi ogni racconto ha svariati riferimenti, qui elencati non in maniera esaustiva : bibliografici, musicali, cinematografici, politici, storici, di antropologia e di scienze agrarie. Nello specifico, nel ventiquattresimo racconto intitolato Banane gialle, il lettore s’imbatte nel termine ‘debbio’ che definisce la pratica ancestrale di rigenerare i terreni bruciandoli.

Inoltre, in questi racconti prevalgono i personaggi maschili, tutti protagonisti, i quali si delineano per l’acutezza di osservazione, di riflessione e discernimento. Sono uomini guidati da uno spiccato senso dell’osservazione, molta curiosità, a volte sono sorprendentemente caparbi, ma in genere dotati di molto buon senso e di un pizzico di melanconia.

Si potrebbe azzardare allora che Waldemaro Morgese faccia celatamente con il lettore il cosidetto ‘patto romanzesco’ che è la pratica manifesta della non-identità (autore e personaggi non portano lo stesso nome) e dell’attestazione di fittività. Ad ogni modo, i racconti hanno una semantica molto vicina all’autobiografica o all’autofinzione, in cui la forma letteraria rimanda agli spazi letterari della vita. Nel delizioso tredicesimo  racconto Il viaggio, un uomo di una certa età incomincia un viaggio in auto con un amico, e partendo da una regione che potremmo definire la  Puglia, man mano che  attraversa diverse regioni d’Italia, offre al lettore il suo intimo stato d’animo che culmina, alla fine di questo racconto, a mo’ di epifania, con la certezza della fine del legame di amicizia che lo legava al suo amico e anche accompagnatore di viaggio.

Ecco le frasi finali di questo racconto: «Giunto nel paese faccio qualche congettura: amare i viaggi può essere un diversivo, cioè una maniera per disinteressarsi del presente? È per questo che Vittorio all’improvviso ha dimenticato chi è e il suo oggi ? Oppure la sua malattia purtroppo incalza? Spero che la risposta sia la prima, ma in ogni caso era finita una grande amicizia».

In modo contrario, noi, da lettori, rinnoviamo il nostro amichevole affetto e la nostra gratitudine a Waldemaro Morgese per questa preziosa raccolta di racconti.

 

LEGGERE UN LIBRO È DIALOGARE IN SILENZIO CON L’AUTORE – (WALDEMARO MORGESE, SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO, GIAZIRA SCRITTURE, NOICATTARO, 2021, PAGG. 160)

 di Enza Caputo

[Casinamorgese.it - 25 giugno 2021].

Leggere un libro è dialogare in silenzio con l’Autore, è ricostruire l’insieme dei significati del testo. Nei venticinque racconti del libro di Waldemaro Morgese, il reale, il fantastico, il concreto, l’onirico si susseguono, si richiamano a vicenda ed elementi del mondo reale si fondono con le immagini del sogno, del surreale, tra storia e mistero.

Lo stile narrativo richiama opere pittoriche del surrealismo, che inquietano (Salvator Dalì) e rasserenano per la vivacità cromatica (Chagall, Matisse, Mirò).

«…Passo dallo sconforto più nero alla speranza e poi di nuovo ricado nella disperazione e così via. Sono diventato un pendolo», parole che comunicano l’esperienza, la dinamica di un incubo.

I primi racconti sconcertano, perché il fantasioso e il reale sono così in equilibrio che non è definibile dove inizia la rappresentazione concreta e dove subentra quella irreale.

Si riscontra nei venticinque racconti un fil rouge: un amarcord felliniano, non racconti autobiografici, ma la testimonianza di una certa stagione, vissuta dall’ Autore.

Egli si diletta a inventare, pertanto sono autobiografie un po’ approssimative, racconti di vita ispirati, appassionati.

In questo lavoro l’autore si racconta attraverso i personaggi: Francis, Arturo, Nora, Francy, Carla, Roberto, Marcella, Martino, Elektra, Umberto, Irene…

Emerge, pertanto, una rievocazione nostalgica nel senso più delicato, intimo, a volte malinconico che sconfina nella ricerca della propria identità e del senso della vita. Lo stile onirico, sognante, irreale del linguaggio domina.

Ad esempio ne La porta del tempo, si disquisisce su complessi ragionamenti fantascientifici, filosofici e il linguaggio è, spesso, vago e indefinibile. La conclusione realistica.

Nell’incipit di Io e Nora la protagonista esordisce: «Ci tengo a illustrare la mia filosofia di vita e a spiegare quanto importante sia la cultura, soprattutto ai giovani che frequentano la biblioteca in cui lavoro» (pag. 33). E poi i problemi sociali: l’uomo e la donna alla ricerca della propria identità di genere. Cronaca nera: scontro tra un padre e un figlio che dichiara la sua omosessualità e che finisce in tragedia.

La sacralità della natura emerge nella descrizione dell’ambiente agreste di collina di cui la protagonista è innamorata e che le dà tanta serenità e felicità, coinvolgendo egregiamente il lettore, facendolo riflettere sulle problematiche ambientali.

Nel racconto Meticciamento, lo stupore, Antonio confessa il suo hobby: «…Contemplare il cielo stellato, ma anche albe nelle incipienti frizzanti mattine, appena sorto il sole. Oppure i rossi tramonti…» (pag. 40). La protagonista, raccontando le sue esperienze di studio, si sofferma sull’ annoso contrasto e spaccatura tra cultura umanistica e scientifica. Ricordo che con il dettato legislativo del 1979, i nuovi Programmi per la Scuola Secondaria di primo grado, si attuarono strategie didattiche per il superamento della dicotomia fra questi due ambiti culturali, indicando la ricerca geografica come strumento «per superare la frattura fra scienze umane e sociali da un lato e scienze naturali dall’ altro». La Geografia utilizza una pluralità di linguaggi «differenti e perciò non gerarchizzabili, il cui possesso integrale è necessario per una formazione completa della personalità umana» (Andrea A. Bissanti, Puglia, geografia attiva, perché e come, ad uso dei docenti, Mario Adda Editore, Bari, 1991, pag. 69): linguaggio verbale, numerico, elaborazione dei dati, rappresentazioni grafiche, cartografiche, simboliche, iconiche. La ricerca accademica si apre al territorio, collabora con la Scuola che, a sua volta, rivede e aggiorna finalità, metodologie e contenuti. Meticciamento, interdisciplinarità nella didattica.

Il senso della vita in Tre figure altere: «…la vita vale per quel che si è capaci di testimoniare e loro tre, da questo punto di vista, sono assolutamente tranquille» (pag. 118). Conclusione di foscoliana memoria, che richiama gli ideali di vita del Poeta: “La religione delle illusioni”, vera esigenza dello spirito.

Insieme, un racconto inizialmente didascalico: «…non bisogna sprecare la nostra vita, che ogni suo momento è prezioso, quindi che a ogni anno bisogna dare valore e viverlo in modo importante» (pag. 62). E poi l’amore, un nostalgico raccontarsi: le trasgressioni giovanili e “i ricordi dell’adolescenza”, i viaggi in continenti e Paesi con un’organizzazione sociale e culturale molto diversa: «ove il medico e lo sciamano si confondono, il guerriero e il folle, il mago e il pescatore…». Una conclusione dolorosa, una sofferenza discreta.

In 8691 un raccontare esperienze che si sono trasformate in incubi ricorrenti. «Dimenticare tutto e tutti». Una scelta di vita in solitudine a contatto con una natura, con fenomeni estremi, il piacere di rileggere frasi di un libro: «In realtà sono attratto dalle incursioni esoteriche, quelle… che ci dicono… che la realtà non è quella che sembra».

Banane gialle: episodi della quotidianità che richiamano alla mente del protagonista, ormai vecchio, le scelte ideologiche, politiche e le convinzioni sociali di gioventù.

In Racconto italiano, il venticinquesimo racconto, quello conclusivo, i toni amareggiati dell’incipit vengono cancellati dall’amore per la cultura, che procura al protagonista momenti di gioia, di felicità. Si chiude il cerchio, conclusione onirica, surreale, misteriosa: «… non so neppure se questa città è materiale, un luogo geografico, insomma, oppure una nuova condizione del mio essere».

Una lettura coinvolgente. La rappresentazione della vita dei diversi personaggi richiama al lettore le sue esperienze e ne è attratto e coinvolto. Come è accaduto a me. Il ricordo del Maestro Nino Rota, molto vicino alla mia famiglia, la partecipazione ai suoi concerti, fra i tanti, alla prima assoluta a Perugia, settembre 1970, della rappresentazione de La vita di Maria per voci, coro e orchestra. E tanti gli episodi e gli aneddoti arricchenti sul piano umano e culturale. Quando si andava a Roma, era diventata una consuetudine incontrare il Maestro Rota, sempre molto ospitale.

L’amore e la sacralità della natura mi ha fatto riscoprire libri a me tanto cari, uno fra tutti Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati, letto qualche anno fa con i miei ragazzi e ragazze di seconda media, da loro molto apprezzato. Ritrovo l’amore per il paesaggio agreste con le tradizionali colture che, ahimè, subiscono l’inesorabilità dello scorrere del tempo.

Lo stile linguistico dei racconti è caratterizzato da un registro espressivo: lo spazio del raccontare è in una zona indefinita che sta attorno alla realtà, la surrealtà, e che lascia libero l’autore nel gioco dell’immaginazione, della fantasia, del fantascientifico, del virtuale…

Waldemaro Morgese, raffinato intellettuale, pur con formazione umanistica, sostiene e promuove un approccio multimediale alla cultura (Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Tascabili Bompiani, Milano, IX edizione, gennaio 1990, pp. 391). Ho dialogato volentieri con l’Autore attraverso la lettura del suo libro che emoziona, fa sorridere, sconcerta, fa riflettere, dà spunti per approfondimenti. Buona lettura.

 

IL RICORDO E IL SOGNO FILTRATI DAL TEMPO NEI RACCONTI DI WALDEMARO MORGESE

di Giulia Poli Disanto  

[Casinamorgese.it - 31 luglio 2021].

Waldemaro Morgese, autore di numerose e consolidate pubblicazioni, con il suo ultimo lavoro “Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo” (Giazira scritture), consegna al lettore venticinque racconti in cui il ricordo e il sogno permettono all’Autore di recuperare il rapporto con la realtà per superare la vita che passa.

Ricordare è sempre un percorso doloroso della mente per ciò che di bello e di gioioso abbiamo vissuto, per ciò che siamo stati e non siamo più. Il sogno è fantasia e immaginazione perché costituisce il mezzo per guarire la malattia della vita, e che Giovanni Pascoli sviluppa nella poetica del fanciullino. Tra il ricordo e il sogno interferisce il tempo, come una forza capace di cancellare e trasformare tutto. Il tempo perduto che la coscienza ha assimilato, accantonando i ricordi che la memoria involontaria mantiene e che l’Autore riporta in superficie proprio attraverso la scrittura, magari grazie ad un sapore ad un profumo ad una madeleine, per dirla con Marcel Proust.

Nei venticinque racconti, dicevo, il tema del ricordo spesso si presenta come rievocazione, rielaborazione di un passato ormai lontano e sfuggente, come reminiscenza di figure di luoghi e di eventi di carattere personale. Come ricordo, appunto, di un passato storico doloroso e/o gioioso e indimenticabile: E pur mi giova la ricordanza e il noverar l’etade del mio dolore, scriverà Leopardi nello Zibaldone.

I racconti evidenziano diverse tematiche dove il concetto di morte, dell’handicap e dell’amore trascinano il lettore in un viaggio che introduce alla vita, a quella vissuta e a quella ancora da vivere per cercare nelle pieghe dei ricordi la strada maestra che quasi sempre è priva di pericoli, o quanto meno insegna ad evitarli. Il tutto è raccontato con un linguaggio essenziale e maturo, ovvero un registro linguistico asciutto e corposo dove lo stile, chiaro e scorrevole, riporta alla mente i quarantanove racconti di Ernest Hemingway.

Il pregio di questi componimenti è la brevità. Le due pagine, o quasi, che li caratterizzano allertano sin dall’inizio l’attenzione del lettore, lasciandolo quasi sempre sorpreso per la chiusa mai scontata. Il filo rosso che li accomuna è la voce narrante del/della protagonista. Il tempo è un elemento essenziale che emerge in tutti i racconti e scorre tra passato e presente attraverso i diversi personaggi anche storici (vedi Giordano Bruno, Pitagora, Francis Drake) e a volte anche nella sua crudezza, vedi Io, Nora.

Perché non parlare anche di racconti intesi come eteronomi dell’Autore, magari alla maniera del portoghese Fernando Pessoa? Un intreccio di voci e di personaggi scomposti in varie altre personalità che sanno di vissuto, di passione all’insegna dell’umanità, dell’amore, del Recuerdo (riferimento al famoso tango dell’italo-argentino Osvaldo Pedro Pugliese) nonché della poesia dove l’emozione delle letture di Apollinaire, Mallarmé, Rimbaud hanno un ruolo fondamentale nel giovane protagonista del racconto Insieme: «Pongo fine ai ricordi dell’adolescenza e, calata la sera, tornati io e la mia compagna a casa, avverto il bisogno di tuffarmi nel mondo dolcissimo della poesia», afferma Roberto prima di tuffarsi nuovamente nei viaggi e nei ricordi di ciò che è stato.

Raccontare, quindi, per Waldemaro Morgese è una necessità per esorcizzare il passato, oppure è una finzione per superare il presente?

La risposta ci arriva dallo stesso Autore in Racconto italiano che, rifacendosi a Elogio della letteratura e della finzione di Mario Vargas Llosa, riporta: «Così come scrivere, leggere è protestare contro le ingiustizie della vita. Chi cerca nella finzione ciò che non ha, dice, senza la necessità di dirlo, e senza neppure saperlo, che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto, fondamento della condizione umana, e che dovrebbe essere migliore».

La finzione, allora, ci viene da pensare, è per l’Autore una componente congenita all’essere umano che in questo modo esprime meglio la sua emotività. Finzione che – a mio parere, e per pirandelliana memoria – parte sin dall’infanzia, tenendo conto che l’essere umano indossa la sua maschera tutte le volte che si rapporta con un suo simile.

Per concludere: ritengo questi 25 racconti molto interessanti sia dal punto di vista emotivo che letterario. Quel gioco spontaneo che parte dal ricordo e si sofferma poi sul sogno, finisce con l’essere filtrato dal tempo che, come tutti sappiamo, è un implacabile censore degli eventi della vita.

 

SCIAMANI, ARABE FENICI…

 di Mary Sellani

 [Il Quotidiano di Bari - 3 agosto 2021].

 Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo, ultima pubblicazione di Waldemaro Morgese, scrittore, saggista, editorialista (Giazira scritture, 160 pagine, 13,00 euro), composta da 25 capitoli, è una raccolta di ricordi rievocati in forma di racconti brevi, e nascenti prevalentemente da memorie di libri letti in grandissima quantità. In possesso di questa enorme erudizione, Morgese si diverte talvolta a metterla a disposizione anche della fiction.

Operazione in cui egli cita puntualmente autori noti e meno noti che sollecitano ad ogni modo le sue riflessioni sulla vita, sulla società, su problemi morali o ideali, sul valore della conoscenza e della cultura. Ripercorrendo la lettura di libri con tale facilità sembra quasi che egli non ami vivere la propria vita, ma la vita “già vissuta”, ricalcando orme che sono già state calcate: citando, ripetendo, riscrivendo, fondendo il presente con il passato.

Ecco allora che, attraverso le letterature del mondo, egli si cimenta con la propria scrittura in una regione più ampia della realtà nella quale è immerso, vivendo un’esistenza non personale ma puramente psicologica, e finendo così per percorrere l’universo.

Aggiungendo poi un pizzico di mitologia alle storie lette, la realtà da lui descritta diventa più scintillante, piena d’incanti e seduzioni, misteriosa e contraddittoria nell’alternarsi perenne tra la luce il buio. Si intuisce così, tra le letture di volta in volta scelte per la stesura dei suoi racconti, ciò che più soddisfa la sua immaginazione: il viaggio, la fuga, la metamorfosi, il naufragio, la recitazione, la menzogna, la fine di un’amicizia, il rifiuto della prassi, la fiducia nella tecnica, la refrattarietà al conformismo, la nostalgia del passato e l’attrazione per il nuovo.

Ma la parte più riflessiva della sua mente lo porta anche a riconoscere che crescendo intellettualmente ci si accorge, per esempio, che il bene e il male non stanno tutti dalla stessa parte. Lo si percepisce nel racconto Banane gialle quando il protagonista, interpellando un amico dopo aver acquistato delle banane da un ambulante di strada, tra cui ve ne sono alcune marce, riflette: «Io nella mia vita sono sempre stato a favore dei lavoratori e dei piccoli operatori economici. Le multinazionali e comunque il grande commercio li odio. Ora cosa sta accadendo? Che ho mandato a quel paese un povero ambulante e mi sono ripromesso di cadere per sempre nelle fauci della grande distribuzione! È una catastrofe, i miei principi di una vita che fine hanno fatto?». La risposta dell’amico al suo dilemma è che «bisogna distinguere caso per caso, che non si può prendere una decisione per così dire ideologica, cioè a prescindere!»

Non contento di questa spiegazione egli rintraccia un libro dalla sua biblioteca, Terra nuova e buoi rossi di Emilio Sereni (1981) in cui l’autore ricostruisce l’antica pratica agricola del “debbio”, vale a dire rigenerare con il fuoco i terreni. Fatto sta che il racconto si conclude con la decisione del protagonista che d’ora in poi comprerà le banane anche dal diavolo, purché le possa mangiare con gusto. È l’evoluzione del mercato globale bellezza!  Che vuol dire benefici per alcuni e sacrifici per altri. Purtroppo, di paradossi e scomuniche di ideologie salvifiche è fatta la Storia del nostro Novecento. Ed in questa ambivalenza sembra muoversi tutto il libro di Morgese.

 

“SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO": GLI INTRIGANTI SCENARI DI WALDEMARO MORGESE

di Andrea Laterza

[molalibera.it - 26 agosto 2021].

Se un titolo può essere la fortuna di un libro, ebbene questo lo è.

La struttura apparentemente frammentata è invece condotta da un intenso fil rouge che tutto tiene e tutto pervade.

I racconti sono asciutti e colpiscono la mente e l’animo del lettore come un colpo veloce, a volte feroce. E’ nell’intima essenza dei personaggi, tutti o quasi alter ego dell’Autore, che si esalta la cifra stilistica del libro.

Morgese riprende e ripercorre a volte le gesta di alcuni dei protagonisti di altri suoi romanzi, in particolare I guerrieri cambiano e Città buie, portando Nora e altri a disvelarsi ancor più e meglio, in un gioco di specchi multiforme, dove la realtà, il sogno, l’idealità, il passato, il presente e il futuro spesso si fondono e si sovrappongono, dando vita ad un caleidoscopio di suggestioni e riflessioni molto intense.

Nei venticinque racconti, l’Autore racchiude la sua filosofia di vita: la cultura come momento fondante nella vita di un essere umano senziente e cosciente; la letteratura, l’arte, la musica come la melodia che fa vibrare le corde più profonde e che tutto trascende, anche in un futuro onirico e fantascientifico.

Pure le incursioni nel presente dell’Autore, con la citazione di personaggi e fatti identificabili, è sempre connotata da interrogativi di fondo, mai da asserzioni apodittiche, sebbene il laicismo di Morgese non faccia sconti: egli si pronuncia con nettezza e chiarezza sui valori di fondo che dovrebbero permeare una comunità matura, proiettata verso migliori traguardi di consapevolezza collettiva.

I personaggi dei racconti sono problematici, complessi, mai lineari e adamantini: anche quando provengono dal popolo e da sacche di disagio sociale e non dalla borghesia delle arti e delle professioni, recano con sé un’inquietudine di fondo che la volontà di riscatto, attraverso il libro e il viaggio, non riesce a diradare, ad illuminare completamente.

L’ambivalenza e spesso l’ambiguità dei “guerrieri” che abitano anche questo libro dell’Autore, testimoniano la difficoltà del quotidiano, l’incertezza del presente, l’angoscia del futuro, il contrappasso da scontare vivendo.

Il viaggio intricato, attraverso la finzione della mente e l’evanescenza di luoghi fisici e metafisici, conducono i personaggi nella logica labirintica di Borges: «Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non innalza un labirinto su un luogo alto della costa, un labirinto cremisi che i marinai avvistano da lontano. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l’universo già lo è» (Abenjacàn il Bojarì, Jorge Luis Borges).

Ecco, i personaggi dei venticinque racconti di Waldemaro Morgese, si perdono in quell’immenso labirinto che è la memoria, il sogno, il desiderio, la mente universale di ogni uomo.

Vi navigano avanti e indietro nel tempo, con suggestioni letterarie e sciamaniche, cyborg che risorgono come arabe fenici, banane gialle di antico e maieutico impegno sociale e un mambo caraibico e ritmico, preludio del viaggio per mare, l’unico che nell’immaginario collettivo, dalla peregrinazione omerica, abbia il senso dell’avventura e, al tempo stesso, della sacralità.

La lettura è immediata, godibile, ricca di erudite citazioni, intrigante.

  

I 25 RACCONTI DI WALDEMARO MORGESE: PERSONAGGI INQUIETI ALLA RICERCA DELLA VIA PER ITACA

di Piero Fabris

[molalibera.it - 11 settembre 2021].

Un periplo di riflessioni è il testo: Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo (Giazira scritture); una rete di storie nelle quali Waldemaro Morgese non solo si specchia, ma getta l’àncora della speranza nel porto del futuro. Come un salmone nelle correnti dell’Oceano dello scibile si muove l’Autore. Un lavoro nel quale si coglie la proiezione dei suoi trascorsi e dei suoi vividi dubbi.

Racconti come volumi di un’enciclopedia che rimandano non solo a memorie, quanto alla Cultura come strumento per rintracciare le coordinate dell’umanità integra che trova nelle biblioteche dello scibile i cunicoli luminosi per gli affamati del sapere.

Racconti con i quali l’autore, il saggista, l’editorialista ci restituisce personaggi meditabondi, anzi il luogo del loro spirito irrequieto che si incammina nella bruma del domani possibile.

Attraverso queste pagine ci restituisce le figure di quanti sopravvivono oltre il tempo, in una dimensione fantastica e amara, magari mistificata dall’immaginario di spazi paralleli.

Waldemaro Morgese dà voce alle incertezze e agli interrogativi di esseri che come naufraghi cercano la via per Itaca in una realtà deturpata: il pianeta amato, vissuto, nel quale ci si sente estranei.

Lo scrittore, da fine polemista, restituendoci nomi e spartiti d’artisti relegati nella soffitta di vite passate, evoca spettacoli e atmosfere come bagagli per affrontare il divenire.

Un condensato di interrogazioni che obbligano a compiere fermate nel pronao di se stessi, sulla soglia del Dio Bifronte o della Dea Kalì che in pochi attimi brucia ogni velo d’ipocrisia!

Sono pagine della curiosità dei piccoli, tratteggiati con incisività nel bisogno argenteo di sapere, simbolo di bisogni genuini di capire, dell’onestà intellettuale così diversa da colui che ha smesso di camminare, felice della presunzione d’essere andato oltre il grammofono, ma che nel profondo rimane un troglodita.

È il contraddittorio e l’analisi lucida, il vero filo conduttore delle venticinque narrazioni! È il desiderio di viaggiare sempre per crescere e il guardare tutto attraverso ottiche del distacco concentrato e del credere nella cultura e ricerca come dispensa d’ingredienti per discernere tra miraggi del deserto e illusionisti, per aprire nuovi sentieri.

Libro di racconti come “luogo/crogiolo” dei pionieri del pensiero che desiderano guardare a chi ha fatto la Storia.

Lo stile, asciutto e scorrevole dei racconti, inanella ricordi ed esperienze con immediatezza.

L’erudizione e le citazioni puntuali tornano, senza retorica, come rintocchi di una pendola che disegna invisibili archi evocatori di universi, ideologie, metamorfosi dell’essere, misura di bisogni autentici «sulla strada/inerpicata al cielo…», capaci di strappare l’inganno di certa nostalgia del passato, grazie a uno sguardo limpido, razionale, concentrato e distaccato da venditori di balle di Banane nel dubbio che interroga la vita con le sue contraddizioni e potenzialità. 

 

 

   

SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE E MAMBO. UN LIBRO DI RACCONTI TRA PASSATO E FUTURO SCRITTO DALLO SCRITTORE MOLESE WALDEMARO MORGESE

di Giusy Carminucci

[Fax – edizione di Mola di Bari – 11 settembre 2021, p. 20].

Waldemaro Morgese ci propone con la sua ultima passeggiata letteraria un libro interessante, Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo, edito da Giazira. Si tratta di una raccolta di brevi, ma intensi racconti di varia ispirazione, adatti ad un lettore più maturo.

Ogni narrazione è una sorta di monologo interiore, in cui l’Autore sembra essere in dialogo con se stesso, quasi alla riscoperta del proprio tessuto identitario: a volte delle proprie radici, altre di un luogo fisico o psicologico da esplorare e rendere fedelmente, ma sempre carico di emozioni, al lettore, che, ignaro, viene dolcemente avvolto in un’aura di mistero. Dirà il Nostro: «Si tratta di scomparire e ritrovarsi in un luogo dai contorni sconosciuti». E ancora: «La proposta consiste nell’andare incontro al mistero totale: ci confortano solo le storie raccontate dalle nostre nonne con protagonisti elfi e uccelli di fuoco che rinascono dalle loro ceneri».

Nei suoi “cortometraggi di carta” – così mi piace definire questi racconti – Waldemaro Morgese affida le immagini alle parole e alla fantasia del lettore e con aneddoti e curiosità lo immette in meandri della memoria, in spazi che sembrano reincarnazione di mondi futuri. Così i temi trattati sono quelli legati ai problemi esistenziali: la famiglia, l’amore, l’amicizia, la miseria umana, la morte e l’eternità, le relazioni umane, il meticciamento delle culture, la solitudine, l’eremitaggio, la capacità empatica di comprendere realmente l’altro. «Il problema è cosa mai accadrà ai nostri corpi senza programmare. Alcunché»: farà dire lo scrittore ad uno dei suoi personaggi.

Icona, quasi logo addirittura di ciascun racconto sono i libri, ben esposti nella “vetrina delle meraviglie” che è la biblioteca: «Di cosa si tratta esattamente? Di una grande bacheca di vetro con tre mensole anch’esse di vetro, ben piantata per terra alla vista di chiunque, con dentro, collocati in giusta esposizione, libri e documenti rari: meraviglie, appunto!»

Libri regalati, ritrovati, già letti, proibiti: trampolini di lancio di relazioni raccontate, luoghi indiscussi di ricordi e di finzione, ma anche spazi in cui, meglio che in ogni altro luogo, si esprime l’emotività… e tutto questo definito con estrema chiarezza ora da uomini ora da donne.

L’alternanza di genere nei protagonisti non è casuale: sembra voler soddisfare il principio secondo il quale medico e sciamano, guerriero e folle, mago e pensatore, Yin e Yang si confondono, dando luogo all’inimmaginabile, creando quello scenario misterico che alimenta la voglia e il desiderio di compiere il viaggio della vita, per soddisfare la sete di Assoluto e affrontare “lo star bene con qualcuno”, proprio come Elektra fa con il suo uomo.

Leitmotiv della narrazione è, infatti, l’Amore: ora per un nonno che non c’è più, ora per un amico perduto, ora per vecchie passioni rispolverate, ora per una donna molto più giovane, ma – come suggerisce il Nostro - «l’Amore non è contare gli anni, ma far sì che gli anni contino…».

8691 è il racconto in cui si avverte più forte nell’Autore il sentirsi ancorato ad un presente che profuma di un futuro incerto, ma che contemporaneamente lo attira verso misteriose strutture portanti della propria vita, che costruiscono ponti tra passato e futuro: «L’anno in cui tutto ebbe inizio lo riconoscerei anche se me lo scrivessero al contrario con l’effetto specchio»; «La vita è una cosa complicata e in molti casi c’è bisogno di prendere tempo prima di risolversi a fare qualcosa, qualunque cosa, anche rispondere a un’innocua domanda».

Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo è un agile libro di piccole ma intriganti storie di vita, raccontate da uno scrittore che vuole porgere al lettore fotogrammi di una realtà nitida, capace di superare lo scoglio della finzione, per tuffarsi in un intrigante dedalo di sogni e desideri.

 

WALDEMARO MORGESE: SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO (GIAZIRA SCRITTURE, NOICATTARO, 2021)

di Mary Sellani

[“Incroci Online” – 12 settembre 2021. Posted by: redazioneincroci on: 12/09/2021 in: narrativa | recensioni]

 

Quest’ultima pubblicazione di Waldemaro Morgese, scrittore, saggista ed editorialista, composta da venticinque capitoli, è una raccolta di ricordi rievocati in forma di racconti brevi e nascenti prevalentemente da memorie di libri letti in grandissima quantità. In possesso di questa enorme erudizione, l’autore si diverte talvolta a metterla a disposizione anche della fiction. Ne scaturisce un’operazione in cui egli cita puntualmente autori noti e meno noti che sollecitano le sue riflessioni sulla vita, sulla società, su problemi morali o ideali e sul valore della conoscenza e della cultura. Ripercorrendo la lettura di libri con tale facilità, sembra quasi che egli non ami vivere la propria vita, ma la vita ‘già vissuta’, ricalcando orme che sono già state calcate: citando, ripetendo, riscrivendo, fondendo il presente con il passato.

Ecco allora che, attraverso le letterature del mondo, egli si cimenta con la propria scrittura in una regione più ampia della realtà nella quale è immerso, vivendo un’esistenza non personale ma puramente psicologica, e finendo così per percorrere l’universo. Aggiungendo poi un pizzico di mitologia alle storie lette, la realtà da lui descritta diventa più scintillante, piena d’incanti e seduzioni, misteriosa e contradditoria nell’alternarsi perenne tra la luce il buio. Si intuisce così, tra le letture di volta in volta scelte per la stesura dei suoi racconti, ciò che più soddisfa la sua immaginazione: il viaggio, la fuga, la metamorfosi, il naufragio, la recitazione, la menzogna, la fine di un’amicizia, il rifiuto della prassi, la fiducia nella tecnica, la refrattarietà al conformismo, la nostalgia del passato e l’attrazione per il nuovo. Ma la parte più riflessiva della sua mente lo porta anche a riconoscere che crescendo intellettualmente ci si accorge, per esempio, che il bene e il male non stanno tutti dalla stessa parte.

Lo si percepisce nel racconto Banane gialle, quando il protagonista, interpellando un amico dopo aver acquistato delle banane da un ambulante di strada, tra cui ve ne sono alcune marce, riflette: «Nella mia vita sono sempre stato a favore dei lavoratori e dei piccoli operatori economici. Le multinazionali e il grande commercio li odio. Ora cosa sta accadendo? Che ho mandato a quel paese un povero ambulante e mi sono ripromesso di cadere per sempre nelle fauci della grande distribuzione! È una catastrofe, i miei principi di una vita che fine hanno fatto?». La risposta dell’amico al suo dilemma è che «bisogna distinguere caso per caso, che non si può prendere una decisione per così dire ideologica, cioè a prescindere!». Non contento di questa spiegazione, egli rintraccia un libro dalla sua biblioteca, Terra nuova e buoi rossi di Emilio Sereni (1981) in cui l’autore ricostruisce l’antica pratica agricola del debbio, vale a dire rigenerare con il fuoco i terreni. Fatto sta che il racconto si conclude con la decisione del protagonista che d’ora in poi comprerà le banane anche dal diavolo, purché le possa mangiare con gusto. È l’evoluzione del mercato bellezza, che vuol dire benefici per alcuni e sacrifici per altri.

Purtroppo, di paradossi e scomuniche di ideologie salvifiche è fatta la Storia del Novecento e in questa ambivalenza sembra muoversi tutto il libro di Morgese.

 

COME UN SALMONE NELLE CORRENTI DELL’OCEANO DELLO SCIBILE – Il nuovo volume di racconti di Morgese

di Piero Fabris

[“La Forbice” n. 10 di ottobre-novembre 2021, p. 16].

Un periplo di riflessioni è il testo: “SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO” (Giazira scritture, Pagine 168, € 13,00); una rete di storie nelle quali Waldemaro Morgese non solo si specchia, ma getta l’ancora della speranza nel porto del futuro. Un lavoro nel quale si coglie la proiezione dei suoi trascorsi e dei vividi dubbi.

Racconti come volumi di un’enciclopedia che rimandano non solo a memorie quanto alla Cultura come strumento per rintracciare le coordinate dell’umanità integra che trova nelle biblioteche dello scibile i cunicoli luminosi per gli affamati del sapere. Racconti con i quali l’autore, il saggista, l’editorialista ci restituisce personaggi meditabondi, anzi il luogo del loro spirito irrequieto che si incammina nella bruma del domani possibile. Attraverso queste pagine ci restituisce le figure di quanti sopravvivono oltre il tempo, in una dimensione fantastica e amara, magari mistificata dall’immaginario di spazi paralleli. Waldemaro Morgese dà voce alle incertezze e agli interrogativi di esseri che come naufraghi cercano la via per Itaca in una realtà deturpata: il pianeta amato, vissuto nel quale ci si sente estranei.

Lo scrittore, da fine polemista, restituendoci nomi e spartiti d’artisti relegati nella soffitta di vite passate, evoca spettacoli e atmosfere come bagagli per affrontare il divenire. Un condensato di interrogazioni che obbligano a compiere fermate nel pronao di se stessi, sulla soglia del Dio Bifronte o della Dea Kalì che in pochi attimi brucia ogni velo d’ipocrisia! Sono pagine della curiosità dei piccoli, tratteggiati con incisività nel bisogno argenteo di sapere, simbolo di bisogni genuini di capire, dell’onestà intellettuale così diversa da colui che ha smesso di camminare, felice della presunzione d’essere andato oltre il grammofono, ma che nel profondo rimane un troglodita.

È il contraddittorio e l’analisi lucida, il vero filo conduttore delle venticinque narrazioni! È il desiderio di viaggiare sempre per crescere e il guardare tutto attraverso ottiche del distacco concentrato e del credere nella cultura e ricerca come dispensa d’ingredienti per discernere tra miraggi del deserto e illusionisti, per aprire nuovi sentieri. Libro di racconti come “luogo/crogiolo” dei pionieri del pensiero che desiderano guardare a chi ha fatto la Storia. Lo stile, asciutto e scorrevole dei racconti, inanella ricordi ed esperienze con immediatezza. L’erudizione e le citazioni puntuali tornano, senza retorica, come rintocchi di una pendola che disegna invisibili archi evocatori di universi, ideologie, metamorfosi dell’essere, misura di bisogni autentici “sulla strada/inerpicata al cielo…”, capaci di strappare l’inganno di certa nostalgia del passato, grazie a uno sguardo limpido, razionale, concentrato e distaccato da venditori di balle di Banane nel dubbio che interroga la vita con le sue contraddizioni e potenzialità.

 

“SCIAMANI, ARABE FENICI, BANANE GIALLE E MAMBO”: UN VIAGGIO EMOZIONALE LUNGO 160 PAGINE (Giazira scritture, Noicattaro 2021)

di Carmen Mari

[Casinamorgese.it - 5 gennaio 2022].

L’Autore ci regala un affascinante testo che racchiude 25 racconti brevi dalla scrittura di qualità tenuti assieme da un invisibile filo carico di emozioni e popolato da sorprendenti personaggi che si muovono in ambienti e scenari riconducibili a situazioni tra il veritiero e l’inventato ma sempre densi di sentimento.

La voce narrante, a volte femminile a volte maschile, sin dalle prime righe di ogni racconto coinvolge il lettore che di volta in volta si misura con molteplici situazioni e punti di vista: partecipa alla fine di un’amicizia, incontra Antonino autore di stornelli, conosce sciamani e guerrieri, magici astri e affascinanti navi, scopre intriganti meticciamenti…

Il coro dei personaggi conduce la narrazione, scandita da perfetta punteggiatura; così emergono trepidanti scenari e storie della famiglia dell’Autore. Famiglia popolata da poeti, musicisti, letterati ed è con questa eredità esistenziale che i racconti svelano i numerosi interessi di Waldemaro Morgese, che spaziano dalla fantascienza alla letteratura, dalla matematica alla poesia, dall’esoterismo alla musica, dalla storia alla politica. Il libro, come oggetto, si infila in moltissimi racconti mai come protagonista ma sempre elemento palpitante e significativo.

La mescolanza delle categorie che troviamo nel titolo del testo è un fedele annuncio della ricchezza dei contenuti di quest’ opera di ottima fattura editoriale scritta con lucida prospettiva mantenendo l’equilibrio tra le radici salde nel passato e lo sguardo a grandangolo volto al futuro.

La scrittura limpida e possente, compagna dei grandi pezzi letterari classici, fa di “Sciamani, arabe fenici, banane gialle e mambo” un libro godibile ed elegante.

 

 

 

 

 

 

 

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28-2-2019/28-2-2021: MARIA A. ABENANTE

28-2-2019/28-2-2021: MARIA A. ABENANTE - Casina Morgese

                                                                            MARIA A. ABENANTE (PROCIDA, AGOSTO 2010)

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29-7-2020: ANNALISA BONI LEGGE IL LIBRO DI VITANGELO MAGNIFICO

29-7-2020: ANNALISA BONI LEGGE IL LIBRO DI VITANGELO MAGNIFICO - Casina Morgese

Il 29 luglio 2020 nell'atrio del Castello Angioino di Mola di Bari è stato presentato il libro di Vitangelo Magnifico "Là dove c'erano le norie" (Gelsorosso, Bari 2020). Nel corso della presentazione, cui hanno partecipato vari studiosi ed eruditi di Mola, l'attrice Annalisa Boni ha letto alcuni brani suggestivi del libro.

Ecco di seguito la recensione al libro di Magnifico scritta da Waldemaro Morgese:

AGRICOLTURA: MORTE O RINASCITA?

Il settore agricolo nel nostro macrosistema economico, storico e ambientale.

Di Waldemaro Morgese

[su Città Nostra n. 199 del settembre 2020].

C’è già chi ha osservato che nelle varie proposte su come utilizzare i nuovi fondi che l’Italia ha avuto dall’UE manchi l’agricoltura; eppure dal 1970 ad oggi la superficie agricola utile si è ridotta di oltre 5 milioni di ettari e l’Italia oggi non solo non è autosufficiente sul piano alimentare (ci manca il 20% del fabbisogno) ma – per chi non lo sapesse – importa anche l’olio d’oliva. Molte produzioni sono “animate” da rapporti di lavoro semischiavistici, gli agricoltori in generale sono sussidiati altrimenti non potrebbero sopravvivere: infatti le cosiddette “filiere” agro-alimentari sono affollate di intermediari e - non potendo il prezzo finale dei prodotti essere superiore ad un certo limite perché oltre i consumi ne risulterebbero disincentivati – il risparmio si fa sul soggetto più debole della filiera, vale a dire l’agricoltore, in gran parte lasciato solo con se stesso.

Per questo Vitangelo Magnifico nella voluminosa silloge Là dove c’erano le norie (Gelsorosso, Bari 2020) intitola la sua premessa La noria è morta! Vorrebbe significare, pessimisticamente, “l’agricoltura è morta” e chiosa: «La misera condizione della nostra agricoltura assume, così, valore di metafora del declino dell’intera comunità, quindi espressione di sottosviluppo, del quale i più non vogliono ancora prendere coscienza». O anche: «Perché all’innegabile ‘progresso’ della nostra comunità non è seguito l’atteso ‘sviluppo’ della nostra agricoltura nonostante la grande tradizione, il prestigio delle produzioni e il sufficiente know-how?».

La silloge ha un sottotitolo: Raccolta di scritti sull’agricoltura di Mola di Bari e dintorni (1970-2020). Nei 98 ‘pezzi’ scelti, fra i tanti scritti dall’Autore in 50 anni di operosa attività e studi, si spazia con dovizia in lungo e in largo sulle problematiche dirette o collegate per mille fili all’agricoltura-produzione. Questo è un fondamentale merito di Vitangelo Magnifico: l’agricoltura non è da lui concepita come una monade, ma come un sistema di civiltà e di ricchezza che connota i luoghi, tributaria e proattiva nel medesimo tempo di innumerevoli fenomeniche economiche, sociali e culturali. Nel volume insomma non emerge solo il ferrato tecnico, esperto di singole produzioni agricole e di singoli prodotti del lavoro agricolo, ma l’accorato sostenitore di un “mondo” plurisecolare che avrebbe grandi potenzialità ma rischia di rovinare su se stesso per insipienza e miopia (politica ma non solo).

Questo ‘sentire’ complesso era tipico di noi giovani del tempo (Magnifico è mio coetaneo, del 1945, solo qualche mese più anziano di me) ed non è facile farlo comprendere ai giovani d’oggi. Mi conforta però che la trentatreenne Marta Barone, inserita nella dozzina del Premio Strega, abbia scritto per il quotidiano la Repubblica del 7 agosto 2020 un bellissimo articolo intitolato Padre e figlio piantano gli alberi per salvare la terra: «rendere quel paesaggio brutale vivibile, fruibile, era una sfida, romantica ma anche sociale, un sogno commovente ma anche la messa in moto di qualcosa che aveva poco a che fare col sentimentalismo e molto con la vita degli umani e degli animali di quel luogo. Creare uno spazio di comunità, di condivisione, una campagna di tutti e per tutti». Nelle aree rurali infatti è tuttora possibile implementare uno spazio di comunità, anzi si tratta di una sfida interessante anche sul piano economico: è l’intuizione alla base degli ecomusei ed è sufficiente riflettere su cosa può diventare la socio-cultura e l’economia che insiste attorno alla “villa”. Per capirlo, basta rileggere le pagine illuminanti di James S. Ackerman consegnate in La villa. Forma e ideologia (Edizioni di Comunità, Torino 2000).

Tuttavia scrivere di agricoltura significa anzitutto affrontare di petto due dualismi che da decenni attraversano il nostro Paese: quello città-campagna e quello Nord-Sud. Sono dualismi storici che si intrecciano fra loro e l’unica maniera per risolverli al meglio fu individuata – da noi giovani del tempo e da una parte dell’infrastruttura politica del tempo – nel metodo della “programmazione”, ma aimé con deludente risultato. Non per nulla Magnifico ripropone opportunamente la recensione che fece nel 1985 su Realtà Nuove (un periodico pubblicato a Mola di Bari) del libro La sfida della programmazione. Movimenti e politiche per l’agricoltura in Puglia, scritto a quattro mani, da me e dal compianto senatore Antonio Mari per le Edizioni dal Sud nel 1985, con una prefazione di Giuseppe Caldarola: un libro di successo, ristampato l’anno successivo. Magnifico così riassume (e felicemente) il libro: «Detto in breve, il resoconto di tutto ciò che doveva essere fatto e non è stato, invece, realizzato nell’agricoltura pugliese dalla istituzione delle Regioni».

L’Autore di certo ricorderà il comune impegno per il recupero delle terre incolte della nostra regione, a partire dagli anni ‘80, sull’onda della legge 285 del 1977. E oggi? Sarebbe senza dubbio utile tornare a programmare, intersecando città e campagna, Nord e Sud, enfatizzando inoltre un quinto convitato di pietra e cioè le aree interne. Secondo molti studiosi il riequilibrio territoriale e il nuovo rapporto città-campagna dovrebbe valorizzare non solo il patrimonio paesaggistico salvandolo dal dissesto idrogeologico, ma anche la società civile che nelle aree interne e rurali sopravvive (oggi residua, ma non è detto che lo spopolamento debba continuare così): una società civile, come ha scritto di recente Dario Di Vico (sul Corsera del 10 agosto), «comunque decisamente più vivace di quanto si possa trovare nei secondi o terzi anelli delle aree metropolitane».

Quando parliamo di città e campagna, di aree metropolitane e aree interne, in sostanza parliamo anche di Nord e di Sud: perché valorizzando le relazioni virtuose fra città e campagna, fra metropoli e aree interne noi in realtà ausiliamo il riequilibrio del rapporto fra Nord e Sud, o per meglio dire possiamo contribuire a riequilibrarlo a patto di agire in modo programmato.

Su tutto ciò ci aiuta ancora Vitangelo Magnifico, nel suo bel libro che parla sì di Mola di Bari ma soprattutto – attraverso l’approccio microterritoriale - dell’Italia e della nostra storia profonda. Infatti egli scrive con accorata chiarezza: «Affrontare il ‘caso studio’ dell’agricoltura molese, oltre a condurre alla formulazione di un modello per la rinascita ambientale ed economica del territorio, è anche un atto dovuto nei confronti dei nostri antenati, i quali, con il lavoro e immani sacrifici, crearono una identità produttiva e morale che ancora caratterizza la nostra comunità e che sarebbe un imperdonabile errore dissipare».

Libri come questo sono pietre miliari importanti della microstoria e microeconomia: se riguardano Mola di Bari dobbiamo esserne vieppiù orgogliosi e riconoscenti.

 

 

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